Relazione del 1716/3 Poveri, elemosine e ceci

Le dettagliate Istruzioni contenute nelle pagine iniziali della Relazione del 1716 chiedevano per ogni comune di dichiarare se, in mancanza di ospedale o analoghe strutture, vi fosse comunque “qualche fondo” a favore dei poveri “tanto mendicanti quanto vergognosi, infermi o ammalati” e di precisarne il numero.
Nel leggere oggi questi testi restiamo colpiti dall’uso di termini crudi e poco “politicamente corretti” nei confronti di persone svantaggiate, soprattutto se confrontati col tono aulico, ridondante e ossequioso al limite del servilismo di certe altre parti delle due Relazioni.
Il numero dei “poveri mendicanti” è in genere molto elevato, ma con forti differenze fra paese e paese, soprattutto nelle percentuali. Si va da meno del 7% di Cuneo al quasi 62% di Entracque. In molti comuni delle medie e basse valli da un quarto alla metà degli abitanti rientrava nella categoria della povertà assoluta.
Meno svantaggiati erano allora i residenti dei paesi di alta valle, che potevano contare sull’abbondanza di risorse foraggere dei pascoli in quota e, a volte, sul transito commerciale dei valichi alpini e relativo contrabbando. Elva, Castelmagno, Bersezio, Argentera, Canosio hanno percentuali di poveri fra il cinque e il quindici per cento, simili a quelle di molti paesi di pianura, mentre a Lottulo, Borgatto di Monterosso e altre comunità di media montagna una persona su due era classificata fra i mendicanti.
È possibile che questi numeri (probabilmente basati sulle Consegne del sale e altri documenti fiscali dell’epoca) fossero in qualche caso poco attendibili o esagerati e di certo peccavano di scarsa uniformità fra i vari comuni, ma resta il dato di fatto di una povertà molto diffusa e drammatica.
A questa situazione cercavano di porre rimedio le Comunità, diverse istituzioni religiose e le Confratrie, a volte contando su qualche reddito fisso derivante da fondi o capitali provenienti da eredità recenti o remote.
Vi erano poi le “limosine pubbliche” fatte dalle Comunità o per “devozione” o per antichi obblighi legati a volontà testamentarie o voti.
Molto diffusa, tanto da essere quasi una regola con poche eccezioni, era l’elemosina fatta ai poveri in occasione della Benedizione della campagna, che avveniva in tarda primavera. In molti casi la Relazione sottolinea che quello era l’unico intervento pubblico di soccorso ai più indigenti, quasi sempre a carico della Comunità. Si trattava, in genere, di qualche decina di lire con cui si acquistava qualche emina di segale “ridotta in pane”.
Nello stesso periodo vi era in molti comuni la tradizionale “distributione de cecci e pane a tutte le fameglie nelle feste di Pentecoste”, legata agli antichi riti del pasto condiviso delle Confratrie. Ne troviamo esplicita menzione a Borgo (dove è l’unica elemosina dell’anno), a Centallo, a Chiusa Pesio, a Cartignano. A Caraglio si distribuiscono ogni anno ai poveri 300 lire “per gli obblighi antichi…nelle feste di Pentecoste”.
A Entracque, dove su 2750 abitanti si contano 1700 poveri (dato che stupisce, visto che il comune era in passato noto non solo per la ricchezza e la potenza dei pastori ma anche per l’industria della lavorazione della lana) la Comunità può contare su un fondo che garantisce un reddito annuo di 900 lire e “ne distribuisce Lire 500 in tanti ciceri alle feste di Pentecoste”.
A meno di un anno dall’editto di soppressione delle Confratrie è un’implicita conferma di quanto fossero ancora vive e vitali queste associazioni e quanto fosse importante la loro azione a favore dei bisognosi. La stessa relazione ammette esplicitamente che in paesi come Vignolo, Villafalletto Valgrana, San Damiano, Pagliero i poveri “non hanno altro soccorso certo che quello della confratria”. E altrettanto spesso dichiara che gli unici edifici pubblici sono quelli della stessa Confratria, usati sovente dalla Comunità per le riunioni di consiglio, gli archivi o le scuole.
La scure della burocrazia sabauda stava per abbattersi su queste straordinarie e misteriose libere aggregazioni, che hanno avuto un’importanza che va molto oltre la loro funzione assistenziale. Sono state per secoli custodi dei beni comuni attenti alla loro conservazione nel tempo e al corretto utilizzo, garanti di una equa ripartizione delle risorse, difensori dello ius proprium delle piccole comunità, e delle antiche tradizioni, poli di aggregazione, salvaguardia dei corretti rapporti reciproci.
Il periodico riunirsi tutti a condividere il cibo era un rituale che serviva a ritrovare coesione e armonia, a diminuire o almeno rendere tollerabili le disuguaglianze, a fare gli indispensabili aggiustamenti a quella “morale comunitaria” che regolava la vita nei paesi.
Le piccole comunità alpine e rurali dovevano affrontare in passato problemi di ogni genere, difendersi dalle pretese dei tanti signorotti locali, dal passaggio e dai soprusi della “soldataglia”, sopportare carestie ed epidemie. Solo la coesione interna, la concordia e un’oculata gestione delle risorse permettevano di superare le continue difficoltà di una vita precaria e di tempi turbolenti.
L’editto del 1717 interrompe questa secolare e benemerita storia e cerca anche di cancellarne la memoria, sostituendone nome e scopi sociali. Nella Relazione del Brandizzo del 1753 non si parla quasi mai delle Confratrie, mentre si nominano diffusamente le Congregazioni di carità, che ne avevano ereditato parte dei beni e degli scopi sociali, senza però ricrearne lo spirito.
D’altra parte, era proprio lo Spirito, con la S maiuscola, quel vento libero di soffiare dove vuole poco gradito ai potenti di ogni epoca, a cui queste affascinanti organizzazioni si erano sempre ispirate.

Pubblicato su La Guida del 30-1-020