Relazione del 1716: sulla traccia delle confratrie 1

Nella biblioteca del Seminario Vescovile di Cuneo sono conservati due interessanti manoscritti della prima metà del Settecento che ci permettono di gettare uno sguardo su come fosse la vita quotidiana nella nostra provincia in quegli anni lontani.
Si tratta di due relazioni diverse per ampiezza e intenti, ma entrambe motivate dall’esigenza dei Savoia di conoscere il territorio per poter meglio esercitare il potere e il controllo. Assieme alla successiva e ben più conosciuta Relazione del Brandizzo, ci offrono una gran quantità di informazioni, dati e cifre che ci consentono di ricostruire nella nostra immaginazione come dovesse essere la vita nei nostri paesi in quel periodo.
Io credo, infatti, che lo studio del passato richieda un’analisi attenta dei documenti antichi, ma sono anche convinto che questa sia solo la prima fase del percorso mentale necessario per poter ricostruire con l’immaginazione l’esistenza quotidiana della gente comune con la massima fedeltà possibile. Solo così si può risuscitare la storia, facendola diventare viva e attuale e solo così è possibile trasformare un’arida materia di studio in una appassionante ricerca capace di legare il nostro oggi col nostro ieri e di farci scoprire le nostre radici.
Il primo volume si intitola “Notizie ricavate dalla Città e Comunità della Provincia di Cuneo in seguito all’ordine ed istruzione di S.M. delli 28 luglio 1716” e risponde a una richiesta del potere sabaudo di conoscere con precisione la consistenza delle strutture di assistenza agli ammalati e ai poveri, le loro dotazioni finanziarie, il tipo di gestione, il numero degli assistiti.
Dietro l’apparente facciata di premurosa attenzione ai bisogni del popolo e al pretesto di migliorare l’efficienza del settore e prendersi cura di mendicanti e ammalati, si cela in realtà l’intenzione di controllare e tassare una grande quantità di risorse economiche e di ridurre gli spazi di autonomia e di autogestione delle comunità locali. L’assistenza ai più poveri era infatti, da tempi molto remoti, appannaggio delle Confratrie (da non confondere con le Confraternite), organismi nati spontaneamente per gestire il patrimonio di beni comuni e distribuire ai bisognosi il frutto di queste risorse collettive. Poco si sa di preciso su origine e storia delle Confratrie, che non erano “istituzioni”, ma libere associazioni sganciate dal controllo politico e religioso. Si ispiravano allo Spirito Santo, avevano rituali di condivisione del cibo che si concretizzavano soprattutto nel pasto comune nella solennità di Pentecoste, in cui tutta la comunità si ritrovava a mangiare insieme “promiscue et indistinte” una minestra di ceci.
Non solo “carità”, quindi, ma condivisione, in un momento dell’anno, la tarda primavera, in cui per i poveri diventava ancor più difficile procurarsi il cibo e soprattutto le preziose proteine fornite in abbondanza dal legume.
Nel corso dei secoli le Confratrie avevano accumulato, tra donazioni ed eredità, un ingente quantità di terreni e fabbricati e a inizio Settecento controllavano ancora una parte, sia pur ormai ridotta, del patrimonio di beni comuni che garantiva in montagna la sopravvivenza dei tanti piccoli “particolari”, proprietari di microscopiche aziende fatte di “pezze” sparse che non sarebbero bastate ad assicurare l’autosufficienza alimentare alla famiglia. Già nel corso del Seicento i Savoia avevano a più riprese cercato di accaparrarsi il controllo amministrativo delle Confratrie, che erano riuscite a conservare, con ostinazione, le loro caratteristiche di autonomia sia dal potere politico che da quello religioso. Ma a inizio Settecento, col crescere del potere sabaudo, della sua capillare struttura burocratica e della capacità di controllo del territorio, il destino di queste libere associazioni era segnato.
Vittorio Amedeo II il 19 maggio 1717 emanò un editto che soppresse tutte le Confratrie e fece confluire i loro beni nelle Congregazioni di Carità. Il provvedimento era volto al progressivo smantellamento dei privilegi ecclesiastici, e quindi aveva una motivazione fiscale, rientrando nel concetto di Perequazione, ma mirava anche a eliminare questi spazi di gestione autonoma. Le neonate Congregazioni dovevano redigere bilanci e dipendevano da una Congregazione provinciale, la quale, a sua volta, era controllata da una sede centrale. Sparita del tutto la vocazione egualitaria e la gestione autonoma e un po’ anarchica, le Congregazioni erano diventate dei veri e propri enti assistenziali, perfettamente integrati nel sistema Stato-Chiesa di allora.
La Relazione conservata in seminario risale proprio all’anno prima e non è difficile immaginare che il suo scopo sia funzionale alla conoscenza del patrimonio immobiliare e finanziario delle organizzazioni assistenziali in vista della loro trasformazione e in funzione del loro controllo. Una sorta di censimento con l’obiettivo di conoscere e regolamentare un settore importante sia dal punto di vista sociale che da quello economico e politico.
Le dettagliate istruzioni iniziali richiedono per ogni comune il numero di parrocchie, delle famiglie e “delle persone dal più al meno”. Bisogna specificare se vi sia “qualche Ospedale per li poveri mendicanti o ammalati” e nel caso riportare “la nota fedele de’ redditi fissi…e casuali”, lo stato del fabbricato, il numero dei letti esistenti e di quelli che si potrebbero aggiungere, da chi siano diretti e “quanti poveri siano al presente albergati in quello”.
Nel caso non vi siano ospedali, si deve comunque comunicare se in città “resti stabilito qualche fondo e regolamento per li poveri del luogo tanto mendicanti quanto vergognosi, infermi o ammalati” e da chi sia amministrato.
Si chiede anche quanti siano i poveri mendicanti, se si facciano collette o “limosine pubbliche o per obbligatione e per divotione”, quanto se ne ricavi e se “ci siano doti da distribuirsi a povere figliuole”.
Per ultimo si domanda se in paese ci sia un “casa publica o commune”, con relativo numero di stanze.
Le Comunità riportate dalla Relazione sono 57 e comprendono tutta quella che era allora la Provincia di Cuneo. Bisogna infatti ricordare che, nonostante l’identica denominazione, la Provincia di Cuneo del Settecento non corrisponde all’attuale ente amministrativo, ma era molto più piccola e non comprendeva albese, monregalese e saluzzese. E alcuni comuni attuali non corrispondono esattamente alle comunità settecentesche. L’attuale Monterosso, ad esempio, era diviso nelle due comunità di Borgatto e di San Pietro, Argentera e Bersezio erano separate e molte attuali frazioni, come Lottulo, Paglieres e Ussolo erano enti indipendenti.

Pubblicato su La Guida del 9-1-020