In memoria di Nuto 3: scrittore

Ho lasciato per ultima la parola più ovvia: “scrittore”.
Una qualifica che ci viene spontaneo associare subito al nome, quando sentiamo parlare di Nuto Revelli, ma che deve comunque venir dopo.
Nuto scrive per dovere di testimonianza, per debito di riconoscenza, non per professione, per soldi o per desiderio di gloria.
Scrive perché ha prima vissuto, parla perché prima ha fatto, ha provato di persona. Scrive per onorare quel debito contratto con i suoi soldati dai piedi congelati. Scrive per dare voce a chi è condannato al silenzio.
Scrive, forse, anche per chiarirsi le idee, perché carta e penna, proprio come in montagna ramponi e piccozza, sono indispensabili per procedere nel lento e solitario lavoro di comprensione.
In questo senso, il Nuto scrittore viene dopo e proprio per questo si può dire con sicurezza che Nuto Revelli è un grande scrittore e un grande studioso della realtà montana.
Farsi scrittore è obbligo e conseguenza, non premessa.
Certo, Nuto aveva il “dono” di una scrittura efficace e coinvolgente, ma queste doti erano il risultato del suo “lavoro di manovalanza”, del suo amore per la montagna, del rispetto per la gente.
In lui la forma è sempre sostanza, mai fine a se stessa. Era uno scrittore di grande talento, ma, metteva questa sua capacità al completo servizio della verità, non della finzione letteraria. D’altra parte, come diceva Jung: “se sei una persona di talento…significa che hai qualcosa da offrire” e lui viveva questa sua seconda vita di scrittore e ricercatore come complemento dei suoi giorni di soldato, ufficiale, partigiano, militante.
In Nuto la scrittura non è mai fine a se stessa e non ha neppure finalità letterarie. Serve a trasmettere idee, sentimenti, ricordi, rivendicazioni, testimonianze. E proprio per questo, almeno per me, è grande letteratura.
Nuto è scrittore corale, nel senso che la sua penna sa farsi interprete della voce e dei sentimenti degli intervistati, reduci, contadini, montanari, donne. Se si legge con attenzione l’opera di Nuto si percepisce un progressivo passaggio dalla narrazione autobiografica a quella corale, come se lentamente lo scrittore spostasse il suo punto focale dall’analisi introspettiva a quella del soggetto che ha di fronte, scoprendone un’identica umanità e una storia comune. Intervistare è arte difficile e aveva ragione chi diceva che a dare risposte sono capaci tutti mentre per fare le domande giuste ci vuole un genio. Per scrivere un racconto corale bisogna saper entrare nella lunghezza d’onda di chi parla, intercettarne i pensieri anche non espressi, condividere almeno per un momento il modo di vivere e di pensare e “farsi riconoscere”: trovare la password di accesso che permette lo scambio di confidenze.
Testimone, montagna, scrittore… Non è possibile raccontare un uomo in tre parole, tanto meno avvicinarsi a un grande autore e ricercatore, a un uomo di parola e di parole come Nuto. Ci tenevo, però, a ricordarlo, così come sono capace, per ringraziarlo anche di quanto mi ha trasmesso in quelle occasioni in cui ci siamo incontrati. Ogni volta una lezione, innanzitutto di disponibilità, modestia e “normalità”, poi di schiettezza, di competenza, di verve polemica. Questo mio scritto nasce dalla riconoscenza e dalla voglia di ricordare una grande e bella persona e un maestro di scrittura e ricerca e non ha quindi nessuna pretesa: la mia conoscenza di Nuto è stata occasionale, anche se non superficiale, e altri, che lo conoscevano meglio, potranno metterne in luce altri aspetti o forse non concorderanno con queste mie sensazioni e valutazioni.
Anche per questo, a compensazione delle mie sole tre parole, ho cercato di inserire, fra le dovute virgolette, molte frasi di Nuto, facendo quasi un collage di citazioni sue. Di mio ho messo tre sole parole che non pretendono certo di definire un grande uomo. Tre parole magari banali e scontate, ma almeno italiane. Mi mette un po’ a disagio (e visto che si parlava di schiettezza mi trovo obbligato a dirlo) notare che in molte delle belle e interessanti iniziative per ricordare il centenario di Nuto ci sia un’inflazione di termini e titoli inglesi. Una malattia degenerativa che sembra aver contagiato il mondo accademico, proprio quello di cui Nuto pareva voler sottolineare, se non la distanza, almeno la non appartenenza: “Non sono un antropologo, non sono un sociologo, non sono un letterato…sono un geometra…”
Una stonatura che è senz’altro veniale, non cambia la buona sostanza delle iniziative, ma che forse si poteva evitare.
Ma per non finire la chiacchierata con una nota polemica nei confronti di chi si fa carico di queste belle iniziative (che sarebbe, questa sì, stonata e non voluta), vorrei ritornare alla parola da cui eravamo partiti: scrittore.
Scrivere è attività che non può fare a meno della speranza, ne è insieme conseguenza e premessa. Chi scrive spera comunque, malgrado ciò che può aver scritto.
E allora vorrei chiudere il discorso cedendo di nuovo la parola a Nuto, per una breve frase che può forse riassumere molto di quanto si è detto:
“Sì, la mia speranza è ancora viva, perché malgrado tutto continuo a credere nella gente…”

Pubblicato su La Guida del 1 agosto 019