In memoria di Nuto 2: la montagna

La seconda parola che collego al ricordo di Nuto è “montagna”. L’amore e, insieme, il debito insanabile nei confronti di una civiltà alpina condannata alla scomparsa.
Il suo primo contatto con i montanari passa proprio attraverso la tragica esperienza della ritirata di Russia e si trasforma in un rispetto e un amore che non verranno mai meno.
I soldati del giovane ufficiale Nuto sono contadini e valligiani: “Facevano la guerra con la stessa serietà e onestà con cui vivevano e lavoravano in casa. Avevano cura delle cose, si preoccupavano della salute del mulo come se fosse una bestia della loro stalla. E li indignavano gli sprechi, le ruberie, la noncuranza…”.
Sentimenti che si approfondiscono durante gli anni della Resistenza: “Ho imparato ad avere un profondo rispetto per questo mondo durante la lotta partigiana. Era un mondo vicino a noi…non ci ha mai traditi.”
Il Nuto scrittore di montagna, l’uomo capace di inventarsi un genere letterario, di dar voce agli ultimi testimoni del mondo dei vinti, di dar valore a quell’anello forte femminile che ha, da sempre, tenuto insieme ogni cosa, di “insegnare” al corpo accademico cosa significhi davvero far ricerca sul campo, nasce negli anni drammatici della Resistenza e in quelli duri dell’immediato dopoguerra.
Nasce da una vita “normale”, di lavoro quotidiano, in cui gli spazi per la scrittura e la raccolta di testimonianze sono rubati al riposo domenicale. E nasce da quel debito iniziale, dall’obbligo di dare voce a chi era rimasto per sempre nel gelo della Russia per l’idiozia colpevole dei potenti di allora.
La rabbia per il cinismo e l’ipocrisia del mondo politico che assiste indifferente alla fine tragica della civiltà alpina ha le stesse radici e la stessa sostanza di quella del giovane ufficiale che vede i suoi soldati mandati al massacro dai gerarchi fascisti.
La capacità di immaginare e immedesimarsi gioca anche nei confronti del mondo alpino e rurale un ruolo importante. Ricordo bene Nuto scandalizzarsi e “arrabbiarsi” per le condizioni inaccettabili in cui vivevano, ancora negli anni settanta e ottanta, gli ultimi abitanti di alcune piccole borgate delle basse valli. Isolamento, mancanza di servizi (compresi quelli igienici…) solitudine, degrado, a pochi chilometri da Cuneo. Ricordo la sua pena e la sua preoccupazione per i vecchi soli durante l’inverno, costretti a temere quella neve con cui avevano sempre condiviso le giornate.
Tristezza e compassione per un mondo che muore e indignazione per l’indifferenza del potere, per la “violenza” e l’ottusità della burocrazia: “la campagna non ne può più di leggi e leggine”.
Il dramma speculare di chi fugge, sceglie la fabbrica e scende in città e di chi si ostina a rimanere in borgate ormai deserte e degradate: “quella gente subisce anche il restare, oltreché l’andarsene”.
Il ricatto e i rischi di una meccanizzazione agricola pensata per le grandi estensioni di pianura e per arricchire industriali e commercianti.
Nuto Revelli, dopo aver onorato il suo debito con caduti, dispersi e reduci della guerra capisce che deve dar voce ad altri caduti, dispersi e reduci: i montanari, i valligiani, la gente della Langa povera, le donne silenziose e attive. E si rende conto che quella dei pochi rimasti fra le mura abbandonate è una forma di Resistenza, che anche la loro solitudine, la loro sofferenza, la loro disperazione devono essere raccontate. E capisce anche che quel mondo di vinti ha qualcosa di importante da insegnare, è custode di un patrimonio culturale che deve essere salvato con urgenza.
Da questa doppia intuizione nasce una ricerca che rivoluziona e mette le basi per ogni successivo studio sul mondo alpino e rurale e nascono due libri “indispensabili”, due capolavori di scrittura corale: Il mondo dei vinti e L’anello forte.
Sono il risultato di anni di ricerche capillari e di innumerevoli interviste (“mi attribuisco un merito: di aver fatto un lavoro di manovalanza”), ma anche di un “metodo” inventato e perfezionato col tempo e facendo tesoro degli errori: “L’errore più grave era non saper ascoltare”.
La capacità di ascoltare sia le parole che i silenzi, di dar spazio all’interlocutore e di mettersi con lui o lei su un piano paritario è alla base del successo di questa ricerca, è la porta di accesso che permette lo scambio di confidenze e la relazione. E permette di ricostruire, con pazienza, un mosaico fatto da innumerevoli tessere diverse, fino ad avere un quadro d’insieme di quel mondo al tramonto, fino a poter trasformare il racconto in storia, in quella “storia minuta… l’unica che mi appassiona”.
Nuto è scrittore di montagna, ma non bisogna confonderlo con i tanti che oggi scrivono di cime, alpinismo, imprese, esplorazioni, record, disgrazie. La sua è sempre la montagna degli uomini e delle donne, del lavoro e della vita quotidiana.
Una montagna che è sentita vicina, ma a cui sa di non appartenere completamente. Con l’onestà di cui parlavamo la volta scorsa, Nuto evita di spacciarsi per montanaro, si immedesima ma non si identifica: “noi, nonostante tutto, operiamo da fuori…”
In un’intervista concessa quando aveva 80 anni, dice una frase che condensa questa sua onestà intellettuale: “per me è difficile spender parole sulla montagna di oggi…per farlo dovrei tornare a vivere in montagna”.
Peccato che ai giorni nostri molti politici, intellettuali, professionisti, opinionisti, si facciano meno problemi e dalle loro lontane residenze cittadine continuino a parlare, decidere e legiferare in nome e per conto di una montagna che vedono da comoda e sicura distanza. Gente che, a differenza di Nuto, ha la pretesa e l’arroganza di identificarsi senza neppure essere capace di immedesimarsi.

Pubblicato su La Guida del 25-7-019