In memoria di Nuto 1: testimone

Proprio in questi giorni, il 21 luglio, ricorre il centenario della nascita di Nuto Revelli. La Guida lo ha ricordato con alcuni articoli, fra cui quello, sobrio e intenso, del figlio Marco, che ha confessato come sia difficile per i famigliari stretti parlare dei propri cari, dando dimensione pubblica al proprio privato.
Ho avuto la fortuna di conoscere Nuto, incontrarlo e parlargli diverse volte e so bene quanto poco amasse le commemorazioni; ma so anche quanta importanza desse, invece, alla memoria. C’è, infatti, una sottile, ma profonda, differenza fra i due termini, che noi spesso consideriamo quasi sinonimi. Commemorare è un verbo logoro, che sa di ripetitività, di obbligo, di cerimonia, di retorica. Il contrario esatto di ricordare, “richiamare al cuore”, oltre che alla mente, per mantenere sempre fresca e vivace la memoria e far rivivere una relazione anche oltre i confini dell’esistenza terrena.
“Non sono stanco di ricordare” ripeteva Nuto, ormai vecchio e malato, quasi a voler lasciare come tacito testamento all’interlocutore occasionale il compito insieme dolce e gravoso della memoria. Memoria che si fa storia e che ne è presupposto indispensabile: “La memoria e la storia dovrebbero procedere di pari passo senza urtarsi, anzi soccorrendosi a vicenda nel tentativo di rincorrere, se non di raggiungere, la verità”.
Cercherò, quindi, di “ricordare” Nuto, seguendo il filo rosso di qualche parola. Nuto era scrittore, era uomo di parole e di parola, e credo sia proprio attraverso il peso e il valore di alcune parole che possiamo cercare di farne memoria.
La prima che viene in mente è “testimone”. Un termine forse scontato, ma inevitabile e importante, tanto da diventare il titolo del bel libro di Mario Cordero edito da Einaudi. Testimone, ricorda Cordero, non è solo chi assiste a un fatto, ma chi ne è “in una qualche misura protagonista. Colui che continua a riflettere su quanto gli è accaduto, che cerca di capire sempre di più, sempre meglio”.
In questo senso, vorrei aggiungere, testimone è colui che in prima battuta non ha capito, che si è trovato, senza volerlo, dentro a eventi o di fronte a persone e idee capaci di travolgere ogni sua costruzione mentale e che poi deve impiegare tutta la vita per riavvolgere il nastro e cercare di afferrare il senso dell’esperienza che gli è capitata. Il testimone ha visto, ha sentito, era presente; ma, mentre si svolgevano i fatti non ne ha compreso del tutto la portata, al massimo ha intuito qualcosa, ha reagito.
Esattamente quello che è capitato ad apostoli ed evangelisti, testimoni dell’avventura umana di Cristo: chi legge con attenzione i Vangeli non può non notare, fra le pieghe del racconto e le parole di vita eterna del protagonista, l’enorme fatica di chi scrive nel riferire avvenimenti e messaggi superiori alla propria capacità di comprensione.
Il cercare di capire diventa allora compito e scopo di tutta la vita successiva. Una rincorsa, un ripensamento, un paziente lavoro interiore di ricostruzione che deve sfociare poi nel condividere con altri il proprio travaglio e il proprio pensiero. Testimoniare è verbo attivo e rivolto all’esterno, ma si basa su una lunga e oscura opera di ripensamento e “digestione”, un difficile e spesso doloroso lavoro interiore che attraversa l’intera esistenza.
Nuto, ufficiale del Regio Esercito, è testimone della tragica ritirata di Russia e deve mettere in crisi tutte le sue idee. Vive da protagonista la Resistenza, la liberazione, la ricostruzione del dopoguerra. E anche qui, è costretto spesso a mettere in gioco i suoi schemi mentali, le sue certezze.
Guida e stella polare in questo difficile percorso di comprensione e superamento è sempre l’onestà intellettuale, la coscienza, il senso di giustizia. E l’immaginazione.
Onestà e immaginazione sono due termini gemelli che affiancherei alla qualifica di testimone, le due pile portanti che danno valore, contenuto e peso a ogni testimonianza.
A prima vista può sembrare improprio abbinare al Nuto Revelli scrittore il termine “immaginazione”. Nuto era autore del tutto alieno da fantasie: l’immaginazione l’aveva usata tutta prima, nel mettersi nei panni altrui, nel sapersi immedesimare nel soldato, nel reduce, nel montanaro, nella contadina con cui stava parlando.
Un’empatia che permetteva il riconoscimento reciproco, la fiducia e lo scambio di testimonianze e che diventava “compassione” nel senso alto del termine: la capacità di sentire sulla propria pelle il peso dell’ingiustizia che grava sull’altro.
Il giovane ufficiale Revelli matura la sua ansia di ribellione e la sua irreversibile avversione per ogni forma di fascismo vedendo i suoi soldati mandati al macello nelle steppe russe con le scarpe rotte e vestiti inadeguati. E capisce il vero significato della parola giustizia quando vede i piedi congelati dei suoi soldati che usavano scarpe e vestiti riciclati dalle guerre d’Africa, mentre lui, ufficiale, aveva potuto permettersi calzature adeguate “fatte dal miglior calzolaio di Cuneo”.
Un privilegio insopportabile, che si traduce nella sensazione di dover pagare nei confronti dei più poveri un debito che impiegherà tutta la vita a onorare.
Onestà intellettuale e capacità di immaginazione e immedesimazione sono due qualità che caratterizzano tutta la sua opera di scrittore e la sua vita di uomo. L’onestà di chi sa di aver sbagliato e di poter ancora sbagliare, di chi ammette di essere “un testimone poco attendibile perché passionale, settario” e confessa “sono un partigiano prigioniero delle mie verità”.
Io credo che la grandezza umana di Nuto sia anche in questa sua capacità di mettere in discussione le proprie certezze senza mai rinunciare alla fermezza delle convinzioni e alla fierezza delle proprie idee. Lo sforzo continuo di capire “il contrasto fra la mia verità e la verità degli altri” che lo porta a voler raccontare, in un libro straordinario e forse sottovalutato, la storia del “disperso di Marburg”.
Nella oscura e drammatica fine dell’ufficiale nazista, Nuto vede una qualche comunanza, ammette che lui stesso aveva rischiato molte volte in Russia di diventare un “disperso”, perché in qualsiasi guerra basta “un niente per perdersi”. Forse per la prima volta riesce a immedesimarsi anche nel nemico, a vederne l’aspetto umano nascosto dalla divisa.
Il che non toglie nulla, naturalmente, all’avversione irriducibile per ogni forma di fascismo e non ha niente da spartire con stupidi revisionismi e neppure con un pacifismo all’acqua di rose. Ma, forse questo riuscire a intravedere comunque il dramma dell’uomo anche sotto la pesante e urtante maschera della divisa nazista può essere stato per Nuto il punto d’arrivo di un lungo percorso partito dalla guerra dei poveri e dalla strada del davai.

Pubblicato su La Guida del 18-7-019