Una montagna di “ciapere”

Questo scritto vuole essere un omaggio ammirato alla ciapera.
La ciapera con la “c” minuscola, nel senso proprio del termine: un cumulo di pietre, sia di origine naturale, sia raccolte dalla paziente mano dell’uomo.
Senza ciapere, senza quei depositi di sassi, pietre e sfasciumi di varie dimensioni che ricoprono molti pendii, nati dalla lenta disgregazione della roccia madre e dal gioco casuale della forza di gravità, non ci sarebbero stati i campi coltivabili, i muretti, le strade e neppure le borgate; non esisterebbe la montagna così come la vediamo oggi, con quel paesaggio unico nato dal lavoro millenario dell’uomo innestato sul lento trasformarsi geologico e biologico dell’ambiente.
Un paesaggio frutto di una collaborazione secolare fra il difficile habitat alpino e uomini e donne che si ostinavano a vivere aggrappati a quei pendii scoscesi, sfidando la fatica, il freddo, la quota, le distanze, la pendenza, le scarse rese agricole. Una relazione, quasi una lunga storia d’amore. Un matrimonio durato secoli, con i suoi alti e bassi come tutte le convivenze, i momenti tragici e quelli felici, le guerre, le valanghe, le epidemie, le carestie, ma anche i giorni di festa e i buoni raccolti. Una collaborazione che è diventata nei secoli una simbiosi, uno scambio e un adattamento reciproci, che ha forgiato donne, uomini e animali forti, ostinati e orgogliosi, regalandoci una civiltà di cui siamo eredi spesso indegni e distratti.
Ciapera è anche il cumulo di pietre nato per azione dell’uomo, in genere per lo scopo primario di liberare campi e prati dai sassi e renderli coltivabili.
Le pietre tolte dal terreno agricolo venivano accumulate sul bordi e servivano da confine fra appezzamenti di diversi proprietari e da deposito di materiale da costruzione a cui attingere all’occorrenza.
Lo si vede bene soprattutto in quegli insediamenti abitativi di fondovalle che gli esperti chiamano, con nome tecnico non troppo elegante, “su conoide di deiezioni”. Si tratta del ventaglio di detriti portati a valle da un torrente secondario che si inserisce con forte pendenza nel corso d’acqua principale. La violenza delle piene, unite alla ripidità dei versanti, trascina sassi e pietre di ogni dimensione, oltre a sabbia e altri sedimenti. Una vera e propria ciapera, ma anche terreni fertili, irrigui e difesi dalle valanghe: insomma, un buon posto in cui abitare, vivere e coltivare. Nelle nostre valli, con andamento est-ovest, si sfruttava, naturalmente, il versante all’adrech, godendo di qualche raggio di sole, oltre che della facilità di collegamenti offerta dal fondovalle.
Una buona posizione, quindi, sia per borgate che per paesi, anche importanti. Solo per restare in valle Stura, sono costruiti su conoide Vinadio, Sambuco, Bersezio, ma gli esempi sono molti in tutte le valli.
Nella foto di Bersezio, presa dalla strada per Ferriere, si vedono molto bene i piccoli campi e prati delimitati dalle ciapere e il largo ventaglio di terreni alluvionali che sovrasta l’abitato, proteggendolo dalla furia delle piene e dalle valanghe.
Le ciapere fornivano “il” materiale da costruzione, in quanto la pietra, assieme al legno, era l’unico mezzo utilizzato per edificare. Pietre macinate e cotte erano la base anche per fabbricare la poca calce usata per interventi particolari, pietre da spacco di natura cristallina e scistosa servivano per fare le lose per i tetti. Le cave di San Pietro Monterosso e del vallone di Frise sono un monumento alla difficile e pericolosa arte del lauzatié. Uno dei tanti mestieri inventati dai montanari per riempire i tempi morti dell’annata agraria e le pance vuote delle famiglie numerose.
Chi non ha mai provato a costruire un muro di pietre a secco non riesce a rendersi minimamente conto dell’incredibile quantità di materiale necessario, del peso che occorre trasportare, degli scarti, dell’abilità che occorre avere per assemblare ad arte pezzi irregolari e non sempre squadrati.
Per i casi della vita, mi è capitato diverse volte di metter mano a muri, volte, tetti. Non ho imparato l’arte, resterò sempre apprendista poco dotato, ma ho almeno potuto rendermi conto di quanto lavoro, quanta fatica, quanti sforzi di mani, di piedi, di schiena siano necessari per costruire anche solo un insignificante porzione di muro.
Per questo, resto ammirato quando contemplo (ormai quasi solo più su vecchie foto o nelle immagini rimaste incagliate nella memoria da passeggiate di mezzo secolo fa) borgate splendide, come molte di quelle dell’alta val Maira o Grana. Le valli Stura e Vermenagna, coi loro valichi internazionali percorsi continuamente da eserciti, ci hanno lasciato minori tesori architettonici: per curare i dettagli costruttivi ci vuole tempo, pace e fiducia nel futuro.
Narbona di Castelmagno (L’Arbouna) è forse il caso più conosciuto, per isolamento, imponenza e soprattutto per la pendenza del versante (attorno al 50%, roba da far invidia al canalino di Lourousa). Ma le alte e anche le basse valli nascondono mille altri gioielli architettonici. L’esodo biblico che ha annientato la civiltà alpina, il tempo, l’incuria, l’ottusità burocratica li stanno riducendo a tristi ciapere, ad ammassi di pietre con pochi edifici ancora in piedi, pericolosi e pericolanti, travi marce e lose sospese a mezz’aria.
Per noi vecchietti che abbiamo memoria di com’erano un tempo è diventato un triste pellegrinaggio ritornare a vedere certi luoghi del cuore. Sensazione condivisa anche e soprattutto da chi nelle borgate ha ancora vissuto. Magno Arnedo, classe 1928, mancato quest’estate, mi diceva che non voleva più salire a vedere la sua Narbona: il confronto fra le immagini registrate nella memoria e il triste presente gli faceva troppo male.
Meglio tenersi buoni i ricordi di una borgata viva e popolata che piangere per come era ormai ridotta.
Magno (Manhou d’ Manocha, lassù erano tutti Arneodo fin dal 1700, quindi ogni famiglia aveva il suo stranòm) mi raccontava dell’immensa fatica necessaria per il trasporto di pietre e lose dalle lontane ciapere alla borgata. Lavoro di decenni, che riempiva i ritagli di tempo di tutti i componenti della famiglia, con l’anziano padre che raccomandava ai figli di non tornare mai a casa a mani vuote, ma sempre con una pietra o una losa. Dovevano rifare una porzione di tetto, ma vicino alla borgata non c’erano pietre adatte a far lose, bisognava fare chilometri per trovarne una e spesso occorreva “sgatàr ’n ouro”, scavare per un’ora, per tirarla fuori. Fatiche di generazioni e di tutta la collettività che si riuniva per l’aiuto reciproco necessario per i lavori più pesanti. Sempre Magno ricordava il centinaio di persone che si erano alternate per trasportare da Celle Macra – con un forte dislivello in salita e in discesa e molti chilometri di distanza – un enorme colmo di merse necessario per il tetto di una grande casa. Nel versante di Castelmagno non c’erano conifere o altre piante adatte per fare travi da grossa orditura.
Le borgate sono frutto di questo secolare lavoro collettivo e quanto più si sale in quota tanto più diventano organismi compatti, unitari, pensati e realizzati insieme. Nascono da un centro di aggregazione (il forno, la fontana, la chiesetta) e si articolano in spazi privati e pubblici capaci di ospitare uomini e animali e di ricoverare le scorte di foraggio e cereali. Spesso i muri sono condivisi, volte ed archi si appoggiano e si intersecano, creando passaggi coperti indispensabili alla vita invernale.
Capolavori assoluti di progettazione spontanea e collettiva che ancora oggi ci emozionano e ci stupiscono, soprattutto se le confrontiamo con i tristi o squallidi esempi di costruzioni disegnate oggigiorno da professionisti affermati.
Ma le borgate sono solo uno dei tanti “prodotti” della ciapera. Almeno altrettanto importanti sono stati, nel corso dei secoli, i lavori di terrazzamento. Il rimboschimento dei versanti, le frane, la vegetazione spontanea che ha riconquistato i pendii ci impediscono di vederli e capire fino in fondo l’imponenza di queste opere immani. Solo con la caduta delle foglie e la prima spruzzata di neve dell’autunno si riescono ormai a cogliere questi giganteschi ricami che modellano il territorio .
In molte borgate di Castelmagno, quasi tutti i terreni coltivabili sono stati “costruiti” realizzando alti muri a secco per sostenere pochi metri di campo in piano. Couànhes, (leggi: quagnes), sono chiamati in loco questi terrazzamenti aggrappati a versanti spesso ripidissimi su cui si seminava segale e orzo, gli unici cereali adatti a queste quote. La segale serviva per il pane, l’orzo locale, molto apprezzato, veniva venduto o scambiato alla pari con il riso. Negli Ordinati di fine Settecento conservati nell’Archivio comunale si legge che gli abitanti erano un migliaio e i campi, in gran parte terrazzati, occupavano 357 giornate. Le produzioni di cereali oscillavano tra le 3000 e le 5000 emine , molto meno della metà di quelle che sarebbero state necessarie per sfamare tutta la popolazione . Oltre un quinto degli abitanti doveva emigrare in pianura d’inverno per poter sopravvivere con lavori occasionali in qualità di ronchini o cabassini .
La montagna era allora molto popolata e non c’era cibo sufficiente per tutti. Per questo, prima ancora di costruirsi case e borgate, era necessario costruire i campi coltivabili con questi giganteschi lavori di terrazzamento. Sempre usando le ciapere, e quantità di lavoro e fatica che oggi non riusciamo neppure a immaginare.
Dai documenti ancora conservati negli Archivi comunali possiamo seguire, o almeno intuire, questo secolare processo di colonizzazione di terre sempre più marginali e scoscese, parallelo alla crescita della popolazione. Già con la ripresa demografica seguita alla peste del 1630 (che aveva dimezzato in un colpo la popolazione) si assiste alla messa a coltura di terre comuni sotto utilizzate con la costruzione di questi campi sostenuti da muri a secco. Una sorta di privatizzazione attraverso il lavoro, l’ingegno e le pietre da ciapera, in grado di trasformare pendii da corde e piccozza in preziosi terreni coltivabili. Sulla spinta della fame e della necessità.
Oggi possiamo vedere solo una piccola parte di ciò che resta di questo immane lavoro. Frane, piogge, radici di alberi hanno cancellato spesso queste opere d’arte e la vegetazione spontanea ne impedisce anche la percezione visiva. Chi ama passeggiare nella montagna antropizzata anche nella stagione delle foglie morte può però scoprire, con un po’ di attenzione, molti di questi reperti “archeologici”.
Un altro prodotto della ciapera sono le strade e i sentieri. Qui il discorso sarebbe lungo e dovrebbe partire da molto lontano. Meglio lasciarlo a un’altra occasione e spendere le ultime righe per rendere omaggio alla bravura tecnica degli ignoti muratori capaci di trasformare le pietre da ciapera trovate sul luogo in piccoli grandi capolavori. Tralascio i particolari più vistosi e più noti: gli architravi, le bifore, gli ornamenti scolpiti, le pile rotonde, frutto di lavori da “professionista”.
Le basse valli, contrariamente a quello che si potrebbe immaginare, erano molto più povere delle terre alte e ci regalano case e borgate più modeste. Alla Barbera di Rittana le pietre locali erano di piccole dimensioni, poco più che scaglie. Costruire case con quei frammenti e poca calce non doveva essere facile. Nella foto si vedono i resti di un muro con spigolo dolcemente arrotondato che unisce bellezza a funzionalità. I muratori della zona venivano dalle borgate sopra Gorré, soprattutto da Graìn. Contadini che nella stagione morta si prestavano a lavorare di martello e cazzuola, per pane, vino e qualche spicciolo. Andavano anche in val Grana: Antonio Isoardi di Lampouret mi ha raccontato della stalla ricostruita nell’immediato dopoguerra da questi artigiani specializzati nel fare muri con le piccole pietre locali e il materiale trovato sul posto. Dormivano nel fienile, condividevano i pasti con la famiglia e finito il lavoro mettevano la cazzuola nella bisaccia e tornavano a piedi nella loro borgata a riprendere le consuete attività agricole. Artisti senza nome e senza qualifica, ma anche loro capaci di trasformare le ciapere in opere architettoniche.
Il discorso sulla ciapera, sui suoi mirabili “prodotti”, campi, borgate, sentieri, e sulle persone capaci di dare senso e forma alle pietre sarebbe molto lungo .
Ma, naturalmente, questo scritto vuole anche essere un omaggio ammirato alla Ciapera, con la C maiuscola. Un periodico felice, fin dalla scelta del nome, che testimonia il legame con la montagna, non solo quella delle cime, ma anche quella degli uomini. Una rivista ormai di lungo corso, che ha scelto di chiamarsi come un cumulo di pietre, assorbendone le caratteristiche. Le pietre sono utili, resistenti, silenziose, stabili. Complementari: sono una diversa dall’altra per caratteristiche e dimensioni, ma ognuna ha una sua funzione e solo insieme diventano un’opera d’arte.
Come capita anche per le persone, soprattutto quelle legate da vincoli di amicizia e da una passione comune.

16 ottobre 018 lele viola