Tempo di castagne 1

Cuneo è situata a quasi 45 gradi di latitudine nord, cioè esattamente a metà strada fra gli eccessi climatici del polo e dell’equatore. Una posizione privilegiata, che ci regala anche un evolversi delle stagioni piacevole, senza gli sbalzi estremi delle zone boreali o la piattezza di quelle tropicali.
Mi è sempre piaciuto ogni cambio di stagione, ma con gli anni ho imparato ad apprezzare soprattutto l’arrivo dell’autunno. Tempo di riflessione e di preparazione, in cui si godono come regali inaspettati le ultime giornate di sole caldo e come piacevoli novità i primi freddi. Tempo, in campagna, di raccolta e di maturazione, con mele, pere, actinidie, noci, castagne, zucche e cavoli che arrivano a regalarci il piacere di fare riserve per l’inverno. Mettere da parte, riempire legnaie, magazzini, cantine, dispense, adesso anche freezer, è uno delle soddisfazioni di chi vive in campagna, una gioia che condividiamo con scoiattoli, ghiri, formiche e altri animali previdenti. Un buon antidoto alla spensieratezza un po’ ebete che oggi sembra permeare una buona parte della classe dirigente del Paese, che pare preferire il frinire stucchevole, ripetitivo e inconcludente della cicala al saggio atteggiamento di chi si sente responsabile del futuro nostro e di chi ci seguirà.
Tra tutti i regali dell’autunno, il più emblematico e rappresentativo è certamente la castagna. Quest’anno, almeno qui a Cervasca, le castagne sono di buona pezzatura e abbastanza sane. Raccoglierle, fare la cernita, portarle al grossista, cucinarle nei vari modi, mangiarle in buona compagnia sono per me rituali che sanciscono il vero ingresso nella stagione autunnale. Passata in questi giorni la Fiera del marrone, che ha festeggiato i suoi primi vent’anni, è anche l’occasione per riflettere sull’importanza di questo albero e di questo frutto e per fare qualche considerazione sul passato e sul futuro di una coltura talmente importante per le nostre basse valli da essere il simbolo stesso di una “civiltà”.
Nello speciale della Guida della scorsa settimana si legge che la superfice a castagneto è in Piemonte di circa 20 mila ettari. Dato forse ottimistico, che magari comprende boschi ormai non più curati e produttivi. Poca cosa, comunque, in confronto ai 90 mila ettari censiti nel 1752 dai Savoia. Allora i castagneti costituivano il 4% dell’intera superficie del Piemonte, con punte del 21% in quella che allora era la provincia di Mondovì. Il solo comune di Demonte contava su 568 ettari di castagneto, quasi 1500 giornate piemontesi. Come afferma Jean-Robert Pitte, autore di uno dei testi “sacri” sull’argomento, si può parlare, per il passato di una “vera e propria civiltà del castagno, oggi in netto regresso” e non si può prescindere dal castagno nello studio dell’evolversi del paesaggio rurale europeo. Lo stesso saggio dell’autore francese ricorda, fra le citazioni documentali più antiche, che i fra le terre acquistate dalla Certosa di Pesio fra il 1173 e il 1277 si parla espressamente di castagneti.
Negli Statuti di Valgrana del 1415 si fissa il tempo di raccolta delle castagne fra la festa della Madonna del 12 settembre e quella di San Martino dell’11 novembre. In quel periodo era vietato introdurre bestie minute nei boschi, con pene triple per i maiali. Ogni epoca ha i suoi capri espiatori, allora erano caprini e suini, ora le autorità se la prendono coi poveri vecchi diesel, colpevoli, secondo loro, di tutti i malanni del modo.
Anche in tempi molto più recenti, San Martino era quasi dovunque lo spartiacque che segnava la fine del divieto di accesso nei boschi e la possibilità per i bisognosi di raccogliere liberamente le castagne rimaste. Una bella consuetudine e un aiuto concreto, con radici negli insegnamenti biblici che imponevano di lasciare al povero il grappolo dimenticato nella vendemmia o la spiga sfuggita al mietitore. Anche per rammentarci che non siamo noi i padroni della terra, ma solo custodi temporanei.
Oggi è difficile rendersi pienamente conto di quanto fosse importante la castagna in passato nelle nostre valli. La posizione di molte borgate immediatamente sopra la quota che rappresenta il limite superiore del castagneto (l’elenco sarebbe interminabile, ognuno può ricostruirlo nella zona di sua conoscenza) era funzionale a non sprecare con costruzioni e cortili terreno utilmente sfruttabile con la castanicoltura. Stare poco sopra i castagni e immediatamente sotto i pascoli era anche una scelta strategica: è più comodo portare su qualche chilo di castagne e giù tonnellate di fieno che fare il contrario.
Altro indizio che ci può far capire quanto fosse importante in passato il possesso di un castagneto lo troviamo rovistando nei Catasti antichi dei paesi di bassa valle. Molte “pesse” idonee alla castanicoltura erano, già da tempi lontani, proprietà di “stranieri” residenti nei paesi di alta montagna. Gli abitanti di Castelmagno compravano castagneti a Valgrana, Monterosso e Bernezzo, quelli di Limone a Robilante e Boves.
In alcuni casi era un acquisto sognato e conquistato con fatiche di emigrazione e di lavori stagionali: poter contare su una scorta di frutti per l’inverno dava garanzia di sopravvivenza alla famiglia. Per i più abbienti era una forma redditizia di investimento. Il Branzizzo ricorda che 948 giornate, quasi la metà dei castagneti di Boves (allora come ora molto reputati per la qualità dei frutti) erano a metà Settecento di proprietà di commercianti di Limone, arricchitisi con il contrabbando del sale.
A Cervasca nello stesso periodo la proprietà fondiaria era nettamente divisa in poche grandi cascine nella pianura, appartenenti a nobili o enti ecclesiastici, e una miriade di piccole aziende famigliari sulla collina, spesso di superficie inferiore alla giornata e quasi sempre con alberi di castagno.
Parlando di Vernante (ma frasi simili si ritrovano in molti altri paesi) lo stesso Brandizzo scrive che “il vitto de’ rurali consiste per lo più nelle castagne” e sottolinea che negli anni in cui il raccolto è scarso molti si riducono a sopravvivere con pane d’orzo e minestre di meliga. Anche allora, quindi, la castagna non era, come si sente spesso ripetere, il pane dei poveri. Era un buon mangiare, un cibo calorico che abbinato al latte poteva davvero costituire una dieta equilibrata e sufficiente.
Oggi la castagna è per molti sinonimo di caldarrosta, una piccola golosità da gustare in qualche occasione particolare. Se ben cotta, è buona, si abbina bene col vino rosso e scalda pure le mani, cosa piacevole coi primi freddi autunnali.
La castagna si è trasformata da alimento base della dieta e principale fonte calorica a sfizio occasionale. E anche i castagneti stanno trasformandosi, da boschi a frutteti. Un cambiamento lento, graduale, ma sostanziale e difficilmente reversibile. Una tendenza che mi lascia perplesso e che credo debba essere oggetto di riflessione da parte di tutti quelli che hanno a cuore il presente delle nostre valli e il futuro di questo albero.
Vorrei quindi riprendere e approfondire questo argomento in una prossimo occasione.

Pubblicato su La Guida del 25 ottobre 018