No euro? No grazie!

Dare la colpa della propria incapacità a qualcosa o qualcun altro è un trucco vecchio come il mondo e da sempre leader improvvisati e presuntuosi cercano facili bersagli per distrarre l’opinione pubblica dai propri fallimenti presenti e futuri. È il giochetto del prestigiatore che distoglie lo sguardo del pubblico dalle sue mani per levare la carta dal mazzo o infilare conigli nel cappello.
Dare la colpa di tutti i nostri mali all’euro è una stupidaggine che serve a nascondere i reali problemi della nostra economia. Concentrare sguardi e antipatie sull’Unione Europea – un’istituzione che spesso sentiamo lontana, invadente e portatrice di ulteriori carichi burocratici – è un facile espediente per distogliere l’attenzione dai guai di casa nostra.
In questi tempi di attacco all’euro conviene cercare di capire qualcosa di più sulla moneta “unica” e, più in generale sulla moneta, prima di affrettarsi a demolire il decennale lavoro di costruzione dell’Unione Europea e lanciarsi in solitarie avventure suicide.
Per capire l’attualità, come sempre, dobbiamo rifarci alla storia e avere la pazienza di partire da lontano.
La moneta è una delle invenzioni basilari dell’umanità, paragonabile alla ruota, alla scrittura, all’addomesticamento del fuoco e di alcuni animali, all’arte del coltivare la terra. È un bene universalmente accettato che serve da intermediario negli scambi, da unità di misura per le valutazioni e che consente di trasportare facilmente valori nello spazio e addirittura nel tempo (con quello che chiamiamo credito e risparmio). Prima della moneta era tutto più difficile e meno “flessibile”: il baratto richiedeva la contemporanea presenza di due soggetti che avessero l’uno bisogno del bene offerto dall’altro. Probabilmente le prime “monete” della storia sono stati i cereali, per i loro semi poveri di acqua e quindi ricchi di nutrimento, conservabili e trasportabili. Poi, per secoli la funzione della moneta è stata svolta dai metalli preziosi, oro e argento. L’effige dell’imperatore su una faccia garantiva peso e purezza, i margini spesso zigrinati evitavano limature fraudolente. Ma quello che valeva era l’oro, il che garantiva stabilità e permetteva cambi fra monete di diversi stati senza problemi o speculazioni: bastava una bilancia precisa.
Con la ripresa dei commerci a largo raggio del Medio Evo nasceva la moneta cartacea, più facile da trasportare e sicura. La “banconota” era appunto una “nota di banco”, cioè una ricevuta emessa da un banchiere che garantiva che alla somma scritta corrispondeva, nei suoi forzieri, l’analoga quantità di oro. La carta era quindi convertibile in ogni momento in metallo prezioso. Su questa convertibilità si basava la fiducia del sistema: la banconota valeva non più di per sé, come la moneta d’oro, ma solo per il fatto che chi la accettava si fidava di colui che l’aveva emessa.
Ben presto i diversi stati si sono sostituiti ai banchieri privati, riservando a se stessi il diritto di emettere moneta cartacea. Ma gli stati, si sa, non devono sottostare alle regole dei comuni mortali e stampare carta in quantità non più proporzionale alle riserve auree, cosa che per un banchiere sarebbe stata una truffa, divenne presto una tentazione inevitabile, portando alla fase successiva che gli economisti chiamano “corso forzoso della moneta”. Lo stato, cioè, approfitta del suo potere per imporre l’uso della moneta cartacea non più convertibile in oro. Obbligo che vale, evidentemente, solo per i propri cittadini e innesca il problema dei cambi delle diverse monete e i rischi di inflazione.
Da noi questa imposizione arriva presto: nel 1866, pochi anni dopo l’Unità, già lo stato dichiara che “la Banca d’Italia è sciolta dall’obbligo” di scambiare i propri biglietti con la corrispondente quantità di oro. Disposizione provvisoria motivata dall’imminenza di guerra, poi diventata, come capita sempre, definitiva. Lo stesso provvedimento è preso da molte altre nazioni nel corso dei decenni. Fra le ultime a dover soccombere, gli Stati Uniti: il presidente Nixon, schiacciato dai costi folli della guerra del Vietnam, nel 1971 deve dichiarare il dollaro non più convertibile in oro.
Fino a quel momento, quindi, il possessore di un biglietto verde poteva pretendere di scambiarlo in oro e questa possibilità aveva reso più stabile e appetibile la moneta americana, fino a farla diventare, di fatto, il punto di riferimento degli scambi internazionali. Anche l’Italia e parte dell’Europa avevano beneficiato fino a quella data della stabilità offerta dal dollaro legato all’oro. Nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods, la lira si era agganciata al dollaro con un cambio fisso che la metteva al riparo da speculazioni e tempeste valutarie. Con circa 625 lire si poteva comprare un dollaro, con 125 lire un franco francese e con 155 lire un marco tedesco. La ripresa e il successivo boom economico del dopoguerra è stata possibile anche grazie a questo lungo periodo di tranquillità monetaria finito bruscamente a inizio anni 70.
Quello che è capitato subito dopo dovrebbe far riflettere gli improvvisati fautori del no euro. Già negli anni 80 il valore della lira era crollato: per comprare un franco ci volevano oltre 200 lire, un marco era scambiato a più di 500 lire. Nel 1995 un franco valeva oltre 350 lire, un marco era arrivato a toccare le 1274 lire.
Certo, una moneta debole favorisce le esportazioni, ma è un suicidio per uno stato come l’Italia dipendente dall’estero per materie prime ed energia e indebitato fino al collo. Inoltre, il balletto vorticoso dei cambi non facilita certo chi per lavoro o commercio ha rapporti con l’estero. Insomma, un disastro, una continua caduta che si è fermata solo con l’ingresso nella moneta unica. Ingresso faticoso, che ha costretto l’Italia a sacrifici e tagli (in buona parte salutari) per essere “promossa” nel club degli aderenti al progetto. Uscirne ora per il ghiribizzo di forze politiche che si sono appena affacciate sulla scena istituzionale, con grandi proclami, promesse, slogan e un’insalata di idee e progetti contraddittori sarebbe, a mio giudizio, una follia.
Il crollo della lira degli ultimi decenni del Novecento sarebbe probabilmente poca cosa in confronto a quello che potrebbe capitare adesso, in tempi di crisi globale e di turbolenze finanziarie ben più violente. Allora si arrivava dalla ripresa del dopoguerra, con un debito pubblico meno grave, un’industria valida, una visione del futuro più ottimistica.
Togliersi il paracadute senza aver ancora imparato a volare è un suicidio e ritornare alla lira porterebbe a conseguenze drammatiche. Basta guardare la situazione di molti stati africani o sudamericani per farsi un’idea di cosa potrebbe capitare da noi: un’inflazione impazzita, una moneta imposta entro i confini nazionali ma considerata carta straccia appena oltre frontiera, un debito pubblico non più gestibile, gli avvoltoi della speculazione finanziaria internazionale che si mangiano a prezzi di svendita immobili, infrastrutture e imprese di valore (e viene da pensare che dietro certe spinte populiste ci siano proprio interessi di questo tipo).
Il progetto di unione europea è uno sforzo prezioso che ci ha portato grandi vantaggi anche economici. Certo, non tutto è stato positivo e condivisibile e molto deve essere migliorato. Ma volere un’Europa meno lontana dai cittadini, meno succube della grande finanza, pretendere un’Unione che non sia governata dalle banche e dalle lobbies, che rispetti le autonomie dei diversi paesi e sappia valorizzare le peculiarità locali e le diversità invece di voler uniformare tutto in un triste amalgama di burocrazia e normative imposte dall’alto è cosa ben diversa dal voler uscire dall’euro e distruggere quanto di buono costruito finora con pazienza e sacrifici di tutti.

5-6-018 Pubblicato su La Guida del 7 giugno 018