Spiccioli di economia 16 Santificare la festa

Siamo in un’epoca di eccessi. Vecchi che muoiono di lavoro forzato e giovani avviliti e rattrappiti dalla disoccupazione. Il troppo che si sposa sempre col troppo poco, senza mai passare per un giusto mezzo.
L’atto del respirare comincia dal buttare fuori bene l’aria per potersi poi riempire i polmoni. Senza espirazione è inutile qualsiasi sforzo e qualunque capacità polmonare. Senza svuotamento non si riempie nulla. La società attuale sembra una persona che gonfi all’infinito il petto nell’ansia di ingerire sempre nuova aria, dimenticandosi di alternare espirazione con inspirazione. Moriamo soffocati per eccesso, non per mancanza d’aria.
Il troppo è sempre controproducente, soprattutto nei campi in cui la giusta quantità è considerata da tutti un bene. Ad esempio il lavoro, lo studio, ma anche lo sport.
I momenti più produttivi di molte esistenze sono senz’altro quelli meno occupati. Il vuoto si può riempire, nel troppo pieno è difficile trovare altro spazio per farci stare qualcosa. Non sto parlando, naturalmente, del “vuoto” generato da pigrizia, ignavia, disinteresse, abulia, né dal buco nero creato dalla depressione. Parlo di un vuoto accogliente, con propensione a far posto a cose, persone, storie, emozioni, fantasie, sogni, speranze. Con un certo grado di approssimazione, potremmo paragonarlo all’otium dei latini, quello stato di apparente inoperosità e di libertà dagli obblighi consuetudinari (nec-otium) che consente di dare spazio a relazioni, interessi, studi, passioni. L’eccesso di studio e di lavoro tipico di questi nostri giorni è l’esatto contrario dell’otium e finisce per essere controproducente.
Sovente confondiamo l’agitazione con la produttività, il tempo occupato col risultato.
Noi italiani siamo specialisti ormai dell’agitazione inutile e improduttiva. Chiunque ha un’attività artigianale o commerciale sa bene quanto tempo, quante spese, quante risorse deve sprecare per stupidaggini burocratiche, per corsi di dubbia utilità, per compilazioni di registri, bollettari, resoconti.
Non si tratta quindi dell’elogio della pigrizia e neppure di ridurre ulteriormente la “produttività” del lavoro. Questo termine, assieme a un’infinità di altre parole, è usato talmente male da stravolgerne il significato fino a capovolgerlo del tutto. Chi si occupa di economia sa che la produttività è un rapporto, quindi non un valore assoluto. Si ottiene dividendo la produzione per un fattore, che può essere il tempo, il numero di addetti, il capitale investito o altro. Per molti aspetti, è quindi più importante e significativa la produttività della stessa produzione. Se raccolgo un quintale di mele in un’ora, in un giorno o in un anno la produzione resta sempre un quintale, ma la produttività del mio lavoro è molto diversa.
E’ evidente, quindi, che l’attuale tendenza ad aumentare all’infinito la quantità di studio e di lavoro non aumenta la produttività, ma la diminuisce. Far lavorare sessanta ore a settimana un medico d’ospedale, far iniziare l’anno scolastico al primo agosto, tenere aperti negozi e attività 24 ore al giorno festivi compresi, portare a novant’anni la soglia pensionabile, oltre ad appiattire la vita e trasformare in schiavitù l’esistenza, abbassa drasticamente la produttività e la qualità del lavoro.
E’ un semplice concetto matematico, che ha precise ricadute pratiche. Spiega, ad esempio, come mai la vecchia scuola elementare, che iniziava il primo ottobre e si fermava il quattro per festeggiare degnamente san Francesco, che faceva vacanza il giovedì e finiva all’inizio dell’estate produceva dopo cinque anni allievi in grado di leggere, scrivere e fare di conto, mentre ora le quaranta ore settimanali di lezione per 210 giorni annui, moltiplicate per i dieci anni di istruzione obbligatoria danno come risultato maturandi a volte illetterati, spaesati e frustrati. Il discorso della formazione è naturalmente complesso e delicato, e non intendo certo banalizzarlo, né idealizzare il passato o disprezzare il presente. Neppure contrapporre periodi e tecnologie. Si può imparare a contare con i mucchietti di fagioli secchi o col tablet, l’alfabeto e la grammatica si possono spiegare ugualmente bene con i cartelloni appesi (A di asino, I di imbuto) oppure con lavagne interattive. Il problema non è il mezzo con cui si insegna, ma, se mai, il modo. Mi interessa soltanto chiarire il concetto che quantità e qualità non sono grandi amiche fra loro e che l’ansia di fare produce spesso risultati opposti alle aspettative. Perché, se è vero che la produttività è un rapporto e se la matematica non è un’opinione, un ottimo modo per farla crescere è proprio non esagerare col lavoro o con lo studio, ma puntare piuttosto alla qualità.
“Ricordati di santificare la festa” è la nostra traduzione del biblico “Ricordati il giorno di shabbat”, il tempo del riposo che il Creatore si era concesso al termine delle sue fatiche. Comandamento così importante per l’ebreo osservante da diventare una vera e propria ossessione che ne snaturava lo spirito imprigionandolo in una serie di divieti, tanto da far dire a Cristo, con una delle sue frasi che non tramontano, che il sabato è stato fatto per l’uomo e non viceversa.
Norma fondamentale per gli ebrei, ma da noi cristiani sempre considerata minore e tutto sommato non troppo impegnativa, anche perché l’ulteriore traduzione spicciola la riduceva a “Ricordati di fare un salto in chiesa prima dell’abbuffata domenicale”.
Comandamento, quindi, che nel mio immaginario sapeva di scarpe pulite e di camicia stirata per gli uomini, di permanente e foulard per le donne, di taiarìn tagliati con l’Imperia e bunèt per tutta la famiglia. Niente di troppo difficile, quasi che il buon Dio si fosse preso anche lui un momento di riposo mentre incideva nella pietra l’elenco delle impegnative regole destinate a guidare la vita delle sue creature.
Invece è comandamento fondamentale, come avevano intuito già gli ebrei due millenni fa, che ha grande profondità e tante sfaccettature. Ci ricorda che il lavoro è un mezzo e non un fine e che deve essere alternato al riposo, ci evita che le occupazioni (e le preoccupazioni) ci mangino la vita, la serenità e la salute, ci suggerisce che la festa, cioè i momenti vuoti dalla routine degli impegni quotidiani, possono essere riempiti con le relazioni, gli incontri, la lettura, la riflessione, il riposo. E ci ricorda anche che gli eventuali risultati, spesso, richiedono la pazienza dell’attesa e non sono legati al nostro continuo agitarsi, che per riempirsi bene i polmoni prima dobbiamo buttare fuori l’aria, che non sempre ciò che riteniamo utile lo è realmente.
Non ho alcuna competenza nel settore, ma a volte mi viene il dubbio che il ruolo della filosofia sia proprio quello di rivelare agli uomini l’utilità dell’inutile o, se si vuole, a insegnare a distinguere fra i molti sensi della parola utile.

Pubblicato su La Guida del 12 aprile 2018