Spiccioli di economia 15 Lavoro: condanna o benedizione?

In una puntata precedente di questa lunga serie di divagazioni sul tema dell’economia avevo citato l’episodio del frutto proibito e il libro che noi chiamiamo Genesi e gli ebrei Bereshit (che significa “in principio”, lo stesso incipit del vangelo di Giovanni). Lettura di grande bellezza letteraria e di inarrivabile profondità nascosta dietro l’apparenza di una narrazione semplice al punto da apparire ingenua e arcaica.
Dopo la storia della mela e del serpente, Dio scaccia l’uomo dall’Eden e lo condanna alla fatica e al dolore. Una sorta di pena dei lavori forzati a vita per l’uomo e di sofferenze per la donna, col finale comune della morte. All’apparenza una punizione crudele e una prospettiva davvero poco allegra per tutti noi. Ma, dietro la prima tragica parvenza, queste righe possono avere una lettura completamente diversa. Senza addentrarci nel complesso tentativo di interpretazione del testo, possiamo comunque intuire che anche la “condanna” al lavoro e alla finitezza, l’obbligo di passare attraverso sforzi e fatica per raggiungere qualsiasi risultato non hanno solo valenza di castigo, ma possono addirittura assumere l’aspetto di benedizione. Come sa chi cammina, viaggia, pedala, lavora, coltiva o studia, solo lo sforzo, l’impegno, la cura regalano alla fine soddisfazione. Che il lavoro sia benedizione o condanna dipende dall’uomo, non dall’ira di Dio per il primo sgarbo della sua inquieta creatura.
Il termine lavoro condivide con tante altre parole la natura ambivalente, la faccia buona e quella cattiva. Di certo, nella sua doppia veste di esercizio manuale e intellettuale è ingrediente indispensabile alla vita. L’alternativa è la noia esistenziale, l’abulia, la depressione. Non per nulla, disperazione e suicidi sono spesso più frequenti fra i ricchi nullafacenti che fra i poveri indaffarati. E l’attuale dramma della disoccupazione giovanile, prima ancora di essere un problema economico e uno spreco insensato, è una tragedia esistenziale fonte di frustrazione e depressione e causa di molti altri mali.
Il racconto di Genesi ci dice che l’uomo può raggiungere la soddisfazione solo attraverso lo sforzo e la fatica, ma ci suggerisce anche che, in opposizione al progetto del Creatore, può trasformare il lavoro in una vera maledizione, per se stesso e per gli altri. Schiavitù, sfruttamento, ripetitività, alienazione, malattie professionali, infortuni sono un lato della medaglia. L’altro è dato dall’impossibilità o dalla difficoltà di trovare un lavoro adeguato e remunerato.
Se considero il lavoro un “fattore di produzione”, non ho alcuna convenienza a eliminare la disoccupazione. In tempi di piena occupazione, il lavoro diventa merce richiesta e costa di più, come capita sempre quando la domanda supera l’offerta. Avere un esercito di disoccupati che fan la fila per avere il “privilegio” di lavorare e una legislazione che permette e incentiva forme di precarietà o di sfruttamento mascherato da apprendistato perenne è un grande (anche se illusorio ed effimero) vantaggio per l’imprenditore che miri a massimizzare a ogni costo i suoi profitti immediati. Ma è un disastro esistenziale, sociale ed anche economico per la collettività, e finisce per ritorcersi, nel lungo periodo, anche contro lo stesso imprenditore. Il motore dell’economia, come spiegava Keynes, è la domanda e, senza redditi sufficienti e sicuri generati da una corretta remunerazione del lavoro e da una piena occupazione, qualsiasi sistema economico è destinato a incepparsi. E i magazzini a restare pieni, le case e le automobili invendute, i locali vuoti. La mancanza di lavoro, insomma, è una delle tante madri di quella che chiamiamo “crisi”.
Ma il dramma della disoccupazione giovanile ha ben altre ricadute, impossibili da contabilizzare in termini monetari.
Il giovane che ha impegnato tempo, fatica, entusiasmo, dedizione per studiare, farsi una cultura e prendere il “pezzo di carta” che in tempi non remoti era il passaporto per approdare al mondo del lavoro, si trova ora confinato in un limbo di domande, attese, frustrazioni, prese in giro e piccoli-grandi sfruttamenti in cui rischia di perdere la carica vitale che dovrebbe accompagnare la stagione dell’esistenza che apre alla vita adulta. Lo studente perpetuo, costretto ad accumulare master, corsi post diploma e post laurea, dottorati, stage, vive in un’eterna energia potenziale che non diventa mai cinetica, è un insetto nel bozzolo che attende invano di poter spiegare le ali e iniziare a volare.
Il dramma coinvolge l’intera famiglia, anzi, sconvolge il normale ciclo di ricambio generazionale. I figli non trovano lavoro, devono restare in casa a intristire, ritardando all’infinito la partenza dal nido e la creazione di nuove famiglie. Padri e madri devono farsi carico dei figli molto oltre il limite naturale, facendo in pratica da ammortizzatori sociali.
La disoccupazione distrugge la fiducia della persona e fa danni che sono impossibili da rappresentare con un numero. E i numeri, in questo caso, a volte possono ingannare. Lo sfarfallio delle statistiche su occupati e disoccupati non aiuta la comprensione. Nella giungla dei dati e delle interpretazioni ci sarà sempre una lettura possibile che permette di sostenere qualsiasi tesi. La statistica è una scienza esatta che può essere usata in modi non sempre onesti per dimostrare tesi precostituite. Spesso basta introdurre i dati in modo diverso per far pendere la bilancia da una parte o dall’altra.
Vorrei finire questa chiacchierata su un argomento che meriterebbe ben altri approfondimenti con una breve considerazione personale.
Il lavoro si impara e, come tutte le cose, si impara meglio da giovani. Sono convinto che sia importante cominciare presto a fare vere esperienze lavorative. Le benedette lunghe vacanze estive degli anni di formazione scolastica sono il periodo adatto per iniziare a provare le varie tipologie di lavori, manuali o di altro tipo. Ricordo ancora con gratitudine le estati a raccogliere frutta, a fare l’apprendista meccanico o il facchino per traslochi e le vacanze di Natale a lavorare sulle piste da sci. Sono stati momenti almeno altrettanto importanti e formativi delle ore di lezione e dei pomeriggi passati sulle declinazioni latine. È importante, però, che si tratti di vere esperienze lavorative, con una remunerazione adeguata all’impegno e ai risultati, non forme di sfruttamento mimetizzato da stage o improbabili e velleitarie alternanze scuola-lavoro. Iniziare ad avere presto vere esperienze di lavoro permette di dare il giusto valore al denaro e alle cose e aiuta crescere e a compiere gradualmente quella transizione alla vita adulta che nei paesi nordici è molto più precoce che da noi.

Pubblicato su La Guida del 5 aprile 2018