Spiccioli di economia 14 Il prezzo giusto

Una delle trasmissioni più longeve nel deprimente panorama dell’intrattenimento televisivo italiano, durata ben 21 stagioni, dal 1983 al 2001, si chiamava Ok, il prezzo è giusto! Non ho mai avuto la televisione e quindi non mi è mai capitato di assistere a una qualche puntata del gioco a premi importato dall’America, e fatico a immaginare come si possa trovare divertente uno spettacolo basato sul tirare a indovinare il prezzo di un prodotto. Sarà che per sbarcare il lunario mi è toccato insegnare per troppi decenni estimo, strana materia che si interessa proprio di dare il giusto valore ai beni, ma ho sviluppato una certa avversione per tutto ciò che riguarda il settore delle valutazioni di ogni genere e specie.
Viviamo in un’epoca afflitta da mania di valutazione.
Forse, l’impulso a voler valutare tutto e tutti nasce proprio dal sapersi privi di veri valori. Una società in cui mancano le fondamenta di onestà, fiducia, solidarietà, fraternità si fa prendere dall’ansia di misurare tutto, di classificare ogni persona in base a valori numerici. La motivazione (o la scusa) è sempre quella di eliminare la soggettività e le possibili distorsioni legate a favoritismi vari, ma, nonostante le buone intenzioni, gli esiti sono preoccupanti e spesso paradossali.
Misurare in maniera oggettiva ciò che rientra nel campo del soggetto, della capacità di relazionarsi e interagire è difficile e può essere devastante, come nelle nostre università ormai in mano ad agenzie di valutazione, griglie, punteggi, crediti. Si misurano le pubblicazioni (solo quelle “accreditate”) e si conteggiano le citazioni, positive o negative, in un gioco di rimandi che premia non i migliori, ma i più capaci a sfruttare il sistema.
Gli effetti positivi ci possono essere, ma (a mio giudizio) prevalgono quelli negativi, soprattutto viene premiata la tendenza all’appiattimento e all’omologazione. Se so che vengo misurato per un fattore, inseguo solo quello e trascuro tutto il resto, i veri “migliori” (che in quanto tali sono poco interessati a questi giochetti) sarebbero sempre tagliati fuori. Se pensate a qualsiasi grande personaggio di qualsiasi campo, da Eistein a Dante, da Brunelleschi a Leonardo, sarebbero tutti esclusi.
Esprimere giudizi è sovente necessario, ma occorre ricordare che valutare non è sinonimo di misurare e che l’ansia di incasellare tutto e tutti in numeri non garantisce oggettività e non potrà mai sostituire il buonsenso, l’onestà intellettuale e la capacità di giudizio della persona. Valutare un allievo è difficile e, a volte, doloroso. Valutare un insegnante con un numero è inutile. La vera valutazione la daranno, magari dopo decenni, gli allievi, con un saluto, un sorriso, una stretta di mano.
La cosa triste di questa smania di ridurci tutti a una serie di numeri è che tende a eliminare il resto: siamo tutti valutati, ma raramente ascoltati, aiutati, sostenuti, compresi.
Lasciando da parte queste divagazioni sull’ansia di valutare tutto e tutti, tipica di un’epoca che pare aver perso di vista i valori veri, possiamo chiederci, sull’onda del titolo televisivo, quale sia davvero il “prezzo giusto” dei beni che ogni giorno compriamo.
Occorre subito sgombrare il campo da un equivoco: giusto è sinonimo di equo, non di migliore o di più basso. O di “azzeccato”, come faceva suppore la trasmissione televisiva dei tempi andati.
Il prezzo di un bene incorpora la remunerazione del lavoro necessario per produrlo, i tributi che si pagano e molte altre voci, fra cui il profitto dell’imprenditore, dato dalla differenza fra ciò che si incassa e tutte le varie voci passive. In un mercato di libera concorrenza il prezzo tende però ad abbassarsi fino al costo di produzione, riducendo sempre di più i margini di profitto. Per sopravvivere, l’imprenditore cerca allora di abbassare il costo. Nulla di male, se il risparmio è il risultato di una migliore organizzazione, di scelte razionali, di una buona gestione. Purtroppo, però, qualcuno può essere tentato di ritagliarsi margini di profitto pagando meno del dovuto i lavoratori, eludendo le norme, evitando di versare i contributi e le imposte, devastando l’ambiente. Oppure, in tempi di globalizzazione, spostando la produzione in paesi dove il lavoro costi meno, la legislazione in materia di diritti, orari, ambiente e sicurezza sia meno attenta, il fisco più favorevole. Il tutto, spesso, dopo aver sfruttato incentivi, sgravi e contributi italiani o europei per impiantare l’attività nelle nostre regioni.
Possiamo farci qualcosa? Certo, possiamo e dobbiamo “fargliela pagare”, per esempio evitando di acquistare prodotti delle ditte che fanno questi giochetti, che sfruttano il lavoro minorile, che avvelenano la terra con antiparassitari micidiali. E scegliendo prodotti che abbiano un prezzo “giusto”.
Altrimenti, che ci piaccia o no, siamo complici di sfruttatori senza scrupoli e di inquinatori senza coscienza.

Pubblicato su La Guida del 29 marzo 018