Spiccioli di economia 12 La favola del PIL

“C’era una volta” in una valle lontana un piccolo paese di casette in pietra e legno, circondato da boschi e torrenti ricchi di acque e di trote. La gente viveva serena, i bambini giocavano per strada. Il traffico era scarso: non era terra di passaggio, ci andava chi doveva o voleva, ma la strada finiva lì, dopo le ultime case della borgata soprana, prima dei sentieri che portavano ai pascoli.
Nessuno era troppo ricco, nel senso che nessuno aveva soldi da sprecare o cose da buttare, ma nessun era così povero da non potersi riempire la pancia e riparare dal freddo. Le scarpe si risuolavano, i pantaloni si rattoppavano, le calze erano talmente rammendate su punte e talloni da sembrare strane ragnatele colorate dai tanti fili diversi aggiunti a chiudere i buchi.
Non tutti erano contadini (c’erano il fabbro, il muratore, il falegname, l’oste, il maestro, il medico e il prete) ma quasi tutti avevano un pezzo di terra buona da far orto e qualche albero da frutta, oltre a un lotto per la legna e a un cortile che dava aria e luce alla casa. Per strada, oltre ai cristiani, giravano cani, gatti e a volte anche qualche gallina curiosa del mondo, in fuga temporanea da aie e pollai.
Ma le strade e i vicoli del paese erano soprattutto il regno di bambini e ragazzi. Andavano e venivano da scuola, facevano le commissioni, esploravano il mondo, cercavano amici e compagni di gioco. Spesso aiutavano i grandi nei loro lavori di campagna, raccoglievano noci e castagne, giravano il fieno, controllavano mucche e capre al pascolo.
Anche i vecchi (nessuno si sarebbe sognato di chiamarli “anziani”, quasi che la vecchiaia fosse una vergogna e non la soddisfazione di un traguardo raggiunto) partecipavano ai lavori e alla vita famigliare: raccontavano fiabe ai nipoti, costruivano attrezzi, preparavano conserve. In genere stavano zitti, ma, se richiesti, erano sempre pronti a dare un parere, un consiglio o anche una mano. C’erano dei lavori che solo loro sapevano fare, come seminare a spaglio il grano d’autunno, col passo lento e regolare coordinato con l’apertura della mano: due cose che solo l’età avanzata sa mettere bene insieme. Perché gli anni che passano, si sa, sono ladri distratti: ti rubano memoria e prestanza, ma ti lasciano esperienza e, a volte, perfino una certa saggezza o serenità.
Insomma, nel paese sperduto c’era posto per tutti, per la freschezza dei bambini, per l’irruenza dei ragazzi, per la forza dei giovani, per la resistenza delle persone mature, per l’equilibrio e la pazienza dei vecchi.
E quando non bastavano le forze della famiglia si ricorreva ai compaesani, ci si dava spesso una mano. Se c’era da rifare un tetto, aiutare una mucca nel parto, battere la segale o tirare su un muro a pietre non mancava mai l’aiuto dei vicini e degli amici, pagati da un semplice grazie, da un pasto condiviso e da un bicchiere di vino.
Come in tutte la favole, anche in questa la fregatura è all’inizio, in quel “c’era una volta” che sottintende che adesso non è più così, che i tempi sono cambiati e i paesini sperduti nelle valli lontane son diventati ruderi disabitati o complessi agrituristici ristrutturati da lontani imprenditori in cerca di buoni affari.
Certo, neanche “una volta” tutto era poesia e vita beata: questa è una favola seria, non una fiaba per imbrogliare i bambini illudendoli di esser capitati in un mondo fatato. Anche nel paese della Valle Sperduta c’erano fatica, sudore, gelosie, grandine, siccità, piccole cattiverie, malattie. Anche lì le brinate tardive uccidevano i fiori del pesco, le cavolaie mangiavano i cavoli e il marìn rovinava pomodori e patate. Non era il paradiso terrestre e neanche lassù c’erano garanzie di felicità. Gioia e pace sono sempre conquiste interiori e insieme regali del cielo, ma stanno nascoste a un livello profondo, più intimo.
Nel paese c’era, però, una serenità diffusa, che si poteva vedere dalle risate dei bambini per strada o negli occhi chiari del vecchio che aspettava sera seduto davanti alla porta di casa, sapendo che suo padre e suo nonno avevano fatto lo stesso e che figli e nipoti avrebbero un giorno preso il suo posto sulla sedia impagliata, a guardare con gusto il tramonto. Si sentiva dal canto che accompagnava spesso il lavoro nei campi e nelle botteghe o dai sorrisi, dai baci e dagli abbracci che incorniciavano gli incontri per strada di vicini e conoscenti.
Ma il “c’era una volta” dell’inizio cancella tutto questo dal mondo del quotidiano e lo imprigiona in quello dei ricordi (per qualcuno), dei sogni (per chi si ostina a non perdere la speranza) o, appunto, delle favole.
Cos’era capitato di così grave da distruggere quell’angolo sperduto di pace e serenità, di campi coltivati e case abitate e trasformarlo in una pietraia di macerie e in una giungla di cespugli? Una guerra, un’epidemia, le cavallette o la carestia?
Niente di così terribile. Al contrario, a rovinare tutto era stato, se mai, il benessere e quella parolina di tre lettere, il PIL.
Era successo che, con l’avvento dell’informatica e dei satelliti, ormai tutto il mondo era monitorato e nemmeno il più remoto angolo di territorio sfuggiva al controllo globale. Così gli Uomini Grigi si erano accorti che, lassù, nella Valle Sperduta, c’era ancora un paese che non era in regola con gli stretti parametri che regolavano il rapporto fra PIL e superficie e quello fra PIL e abitanti. In altre parole, lassù c’era tanto spazio e tanta gente che però produceva poco reddito e pochissimo Valore Aggiunto. E quindi pagava anche poche tasse, non perché i montanari fossero evasori, ma semplicemente perché erano cattivi consumatori. Peccato mortale, per la severa morale imposta dalla religione della Crescita e del Profitto e dai rigidi comandamenti del PIL (non più solo dieci brevi frasi, ma settantamila norme divise in commi e articoli, introdotti dal primo: io sono il Mercato Dio tuo).
Il server centrale aveva segnalato l’anomalia, il GPS l’aveva localizzata, un LED rosso si era messo a lampeggiare sulla mappa, il burocrate impiegato semplice aveva comunicato il problema al burocrate dirigente e su su, risalendo la complicata scala gerarchica si era arrivati fin al Burocrate Capo Assoluto. Di qui, per forza di gravità, la decisione era ridiscesa fino ai livelli operativi. Il Capo degli Uomini Grigi era stato chiaro: l’anomalia doveva essere sanata alla svelta, prima che a qualcun altro saltasse per la testa di imitare i paesani e l’eresia si diffondesse anche fuori della Valle Sperduta.
E, finalmente, anche nel paese sperduto era arrivato il Progresso.
Le strategie operative erano state le solite, usate da tempi immemorabili, ma sempre efficaci: il bastone e la carota. Il bastone delle normative, delle multe, delle minacce e la carota degli incentivi, delle promesse, degli allettamenti.
La favola, a partire da questo momento, perde i colori tenui e dolci dell’inizio e assume quelli drammatici e tristi di molti racconti per bambini. Orchi e streghe cattive, lupi affamati e pifferai malintenzionati abbondano anche nelle fiabe per l’infanzia: una sorta di avvertimento all’innocente ascoltatore di quella che sarà la vita che lo aspetta.
Ma noi non siamo più bambini, siamo già tutti abbastanza impauriti e intristiti di nostro senza doverci soffermare troppo sulle brutture e sulle angosce di questo epilogo. La favola, da questo punto in poi, diventa realtà e ognuno può costruirsela da sé.
Per non lasciare frasi sospese, ne do però una mia versione, una delle tante che si potrebbero creare nei giochi della nostra mente, in quel confine labile fra fantasia e realtà che chiamiamo immaginazione. Ben contento se qualcuno vorrà progettare un finale diverso e, magari, più allegro.
Visto che è inverno e scrivo godendo del tepore buono della stufa, cominciamo di lì.
Un tempo tutti facevano la legna per la stagione fredda tagliando lotti nel grande bosco comune. Era il diritto di focatico, sancito dall’uso secolare, ma non da atti di notaio o documenti ufficiali. La legna, si sa, scalda tre volte: la prima quando si abbattono gli alberi e si portano a casa dal bosco, poi quando la si riduce in pezzi che si ammucchiano sapientemente in legnaie coperte e, finalmente, quando si mettono i ciocchi nel putagè e per la casa si sparge il calore dolce della stufa mescolato all’odore del minestrone che cuoce sulla piastra.
Tanto calore, tanto benessere, ma niente PIL, niente Iva, niente accise sul gasolio. Si poteva cominciare proprio di lì, avevano deciso gli Uomini Grigi. Da quel boschi comuni che, da tempi immemorabili scaldavano gratuitamente gli inverni dei montanari.
Così un giorno erano arrivate le prime multe. Abbattimenti non autorizzati, senza il necessario piano forestale, uso della motosega da parte di operatore non professionale senza il patentino, danneggiamento di bene demaniale inalienabile. Il trattore anteguerra di Toni era stato sequestrato, insieme al vecchio tamagnùn: oltretutto, non erano neppure omologati. Era una questione di Sicurezza, quella con la S maiuscola fatta di piani, corsi, responsabili, progettisti, omologazioni, bolli e timbri; non la vecchia sicurezza basata su buonsenso, attenzione e conoscenza del mestiere.
Quell’inverno nessuno era più salito nei “lotti” in quota a far riserva di faggio, come si era sempre fatto da tempo immemorabile, per paura di farsi beccare. In compenso erano arrivati tecnici ed esperti con fuoristrada e strani apparecchi.
E, come si dice nelle fiabe, un “brutto giorno” tutto il grande bosco “bandito” che sovrastava il paese era stato tagliato. Non le piante mature, come si era sempre fatto, abbattute con saggezza per far spazio alle giovani e consentire un rinnovamento naturale di quel grande essere vivente che chiamiamo foresta. Taglio raso, con caterpillar, verricelli, cingolati, cippatrici. In piena sicurezza e legalità, con operatori professionali, permessi, progetti, piani, caschi e imbragature. Tutto in regola: c’erano perfino le cuffie per le orecchie e le scarpe antinfortunistiche. Ma quello che era stato da secoli lo sfondo del paese, il suo polmone e la sua riserva naturale di calore dopo pochi giorni era diventato un deserto.
I faggi erano finiti tritati a fare pellet per alimentare la centrale di teleriscaldamento. Un grande inceneritore che bruciava di tutto, e aveva bisogno anche di qualche briciola di buon legno per far quadrare carte e numeri. I grandi impianti centralizzati, si sa, inquinano meno di tante piccole stufe o caldaie diffuse, rendono di più (in tutti i sensi); e poi si usano i filtri, almeno in teoria e di giorno.
Era una questione di Ambiente, quello con la A maiuscola, fatto di piani, progetti, proclami, divieti, imposizioni, polveri sottili e parti per milione. Non l’ambiente che tutti conosciamo, quello fatto di campi e prati, uomini e case, giorni sereni e giorni cupi..
Il paesaggio era cambiato, ma in compenso, senza alberi si prendeva meglio il segnale televisivo della grossa antenna che avevano messo sul colle. Finalmente si vedevano tutti i mille canali e si poteva passare la sera a giocare col telecomando e a farsi suggerire cosa comprare. Risolto anche il problema di cosa dirsi durante la cena in famiglia o di dover invitare i vicini per una serata in compagnia.
Per fare la spesa, però, adesso bisognava scendere in pianura.
Il negozietto del paese, quello in cui trovavi di tutto, dalle spille da balia al sapone di Marsiglia, aveva tirato giù la serranda. Il quaderno a quadretti su cui si segnavano i conti (che spesso si saldavano quando si vendeva il vitello) non andava più bene, ci voleva il registratore di cassa, il reparto frigo per gli alimenti, la cuffia in testa e i guanti di lattice. Bertu e Pina, i proprietari, erano in quell’età in cui la voglia di ricominciare da capo inizia a diminuire e avevano deciso di dedicare il loro tempo ai nipoti, piuttosto che al commercialista.
Poco male, in fondo al supermercato la scelta era molto maggiore e ci si serviva da soli. Tanti acquisti e nessuna chiacchiera, al massimo la cassiera ti chiedeva se avevi la tessera.
Nel fondovalle avevano costruito, coi fondi europei per le aree depresse, la Grande Fabbrica e molti paesani erano stati assunti. Stipendio fisso, ferie, pensione tredicesima. E mutuo da pagare… Sì, perché c’erano i turni, viaggiare era scomodo, e poi avevano tolto la vecchia corriera. Così c’erano le rate della macchina o, per qualcuno, quelle dell’appartamento in condominio. E c’erano gli interessi che salivano con l’inflazione. Prendi cento, firmi una tonnellata di carte incomprensibili e poi devi restituire duecento. Così molti avevano dovuto mettersi a fare un doppio lavoro per far quadrare il bilancio, o avevano finito per dar via per quattro soldi la vecchia casa in borgata.
Tanto più che si era messo di mezzo anche il Catasto, ora che dal cielo potevano controllare tutto, e il postino arrivava carico di raccomandate con “accertamenti”, arretrati e multe. Il fienile non poteva più esser considerato “rurale” e doveva pagare IMU, IUC, IRPEF, TASI, TARI e una mezza dozzina di altre sigle ed essere accatastato come “magazzino”. Pagava imposte come il retrobottega di un negozio in centro e non rendeva nulla. Tanto valeva svenderlo, regalarlo o se non trovavi nessuno che lo volesse, ridurlo a rudere togliendogli il tetto. I fabbricati “collabenti”, come gli uomini nullatenenti o nullafacenti, sfuggono anche al fisco.
Un giorno erano arrivati ingegneri e geometri con i loro strani strumenti e avevano messo dei paletti nei campi. Era necessaria una nuova strada, quella vecchia, stretta, coi tornanti e “priva delle protezioni a valle”, non era più sicura. La nuova strada si era mangiata i pochi terreni in piano e aveva portato in paese tante macchine. Troppe macchine… La piccola piazza della chiesa non bastava più e tutto l’abitato si trasformava nella bella stagione in un grande parcheggio.
Come capita sempre, attorno alla strada erano spuntate case nuove, di forma strana, con ringhiere metalliche e autobloccanti grigi e qualche brutto capannone prefabbricato. In uno c’era andato anche Pierìn, il fabbro, che prima lavorava al piano terreno della sua abitazione, in centro paese, o nel grande cortile antistante. Ma l’attività artigianale non era più compatibile con i centri abitati, e tanto meno con quelli “storici”. Troppi decibel con la mola e il martello, pericolo di incendio con forgia e fiamma ossidrica. E poi lamiere e tondini non sono un bello spettacolo in mezzo alle case in pietra. Anche l’occhio vuole la sua parte e i turisti ormai sono esigenti, pagano e bisogna accontentarli. È una questione di Paesaggio, sempre quello con la P maiuscola, fatto di piani regionali, di scartoffie e di ipocrisia, quello che vuole porfido e lose nei centri e non vede i capannoni e le rotonde venti metri più in là. Non quello con la p minuscola, costruito nei secoli dal paziente lavoro dell’uomo in armonia con la bellezza naturale della montagna.
E, in effetti, con la strada erano arrivati i turisti, col risultato che il paese era troppo affollato per due settimane all’anno e deserto per le altre cinquanta. Beppe e Rinuccia avevano provato a mettere su un posto tappa, anzi, un bed and breakfast, come si dice adesso. Ma era durato poco. Erano obbligati a dare cibi confezionati (per via dell’Igiene) e a trasmettere ogni sera in Questura l’elenco aggiornato degli ospiti (per la Sicurezza) e i clienti si erano stufati di arrampicarsi fin lassù per mangiare le merendine del supermercato e compilare registri.
Molte case erano state aggiustate. Certo, non era più possibile rifare un tetto aiutandosi tra vicini e tirando su il colmo di merse a forza di braccia. Ora ci volevano gru, ponteggi, piani di sicurezza con relativi progetti, collaudi, responsabili, esperti. Poi c’era l’antisismica e il cemento armato aveva sostituito per legge i mattoni e le pietre. Queste ultime si dovevano impiegare, per rispetto dei “vincoli paesaggistici”, ma non erano più l’anima portante della casa, erano solo un triste rivestimento. E non arrivavano più gratuitamente da campi e ciapere, ma a caro prezzo da cave lontane. Sempre per via del PIL, naturalmente.
La storia potrebbe continuare all’infinito, magari parlando di Trumlìn, il pastore che aveva dovuto cambiar mestiere, stanco di vedersi gli agnelli sbranati dai lupi e dover tenere le pecore prigioniere in recinti elettrici. Non poteva più neppure fare il formaggio su alla meira. Era sempre per l’Igiene, quello con la I maiuscola, quello fatto di registri HCCP, piastrelle e recipienti inox, non il semplice igiene fatto di materie prime di buona qualità, tanta pulizia e un po’ di attenzione. Ma la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, per il povero Trumlìn, era stata una multa di duemila euro, il giorno che una pattuglia appostata sulla stradina vicinale l’aveva fermato con un caprone sulla Panda. Trasporto di animali vivi su veicolo non autorizzato e non disinfettato.
Era per il Benessere animale, sempre quello con la B maiuscola…, oltre che per il Codice della Strada.
Trumlìn, incredulo, aveva provato prima a scherzare, dicendo che aveva trovato Bucot, il suo vecchio caprone, per strada che faceva autostop e gli stava solo dando un passaggio, poi aveva cercato di spiegare che le capre, d’autunno vanno in calore e hanno bisogno di compagnia. Quindi stava portando il maschio nel gregge proprio per una questione di benessere animale, oltre che per la necessità fisiologica della riproduzione. Non c’era stato nulla da fare. Evidentemente il benessere di Trumlìn e delle sue amate capre aveva la b minuscola e non contava nulla.
Trumlìn aveva pagato con i soldi recuperati svendendo gli animali che costituivano la sua ragione di vita. Il resto del denaro lo aveva speso all’osteria o in bottiglioni di vino scadente. Era per la Rabbia…
E la Rabbia, assieme alla Frustrazione, all’Invidia, alla Gelosia erano state capaci di fare quello che non era riuscito alla Peste del 1600, alle mille guerre dei secoli scorsi, alle carestie, alle annate balorde, all’afta del bestiame. Erano riuscite a togliere l’armonia, la serenità e l’unione fraterna che aveva permesso, in passato, di sopportare tutto e di rinascere sempre, di ricostruire dopo gli incendi e le valanghe, di ripartire dopo le tragedie e le malattie.
La Valle Sperduta, adesso, era quasi vuota. Se ne era andato anche Peire, il vecchietto che passava le sere estive seduto davanti a casa a godersi il tramonto. I figli si erano trasferiti in città e non si poteva certo lasciarlo solo lassù, così l’avevano messo in un Istituto “dove si sta tanto bene”. Anche la sedia era sparita, se l’era presa un turista di passaggio per venderla in qualche mercatino delle pulci. Non valeva granché, appena una manciata di euro per una sedia fatta a mano e impagliata, ma anche questo fa PIL.
E, a proposito di questa sigla da cui era partito tutto il racconto, ormai in paese il numero di abitanti era talmente ridotto da far rientrare il rapporto fra PIL e residenti nella piena normalità.
L’anomalia era cessata, il led sulla mappa aveva smesso di lampeggiare.
Niente di nuovo sul fronte occidentale.
Ma quello che prima, salendo di sera, sembrava un paese di case illuminate aggrappate al fianco del monte, ora era un deserto di ruderi bui.
E non potevi neppure consolarti guardando le stelle. Con la strada era arrivata anche l’illuminazione pubblica, con la luce azzurrina delle lampade fluorescenti a cancellare la notte.

Pubblicato su La Guida dell’8 marzo 018