Spiccioli di economia 11 La trappola del PIL

Strana davvero la storia del PIL.
Difficile trovare qualcuno che ne parli bene, neanche in un mondo così variegato come quello degli economisti per mestiere o per diletto. Eppure quasi tutte le nazioni lo usano come principale indicatore economico, tanto che si potrebbe dire che gli stati, le leggi, le nostre stesse vite sono guidate e condizionate da questa breve sigla di tre lettere.
PIL sta per Prodotto interno lordo, il solito acronimo tipico di un mondo che ha sempre troppa fretta per attardarsi a pronunciare parole intere e che, soprattutto, non ci tiene troppo a farsi capire. Numeri e sigle sono le formule magiche che sostituiscono frasi e ragionamenti: dicono senza dire, indicano senza spiegare.
Il Prodotto Interno Lordo è la somma del valore di mercato di tutti i beni e servizi prodotti in una nazione, o se si preferisce usare un concetto preso a prestito dall’Iva, la somma dei valori aggiunti. Dato che in valore assoluto sarebbe una bella sfilza di miliardi di euro – uno dei tanti numeri talmente grandi da non dirci più nulla – si preferisce parlare della variazione rispetto a un periodo precedente. Il segno più o meno e la percentuale ci fanno subito capire se gli affari (teoricamente) stanno andando bene o male.
Il PIL riguarda tutto il territorio nazionale, comprende quindi anche il prodotto di imprese e lavoratori stranieri in Italia, in una sorta di ius soli aziendale. Capitali e redditi, evidentemente, sono meglio accetti delle persone: come dicevano già i latini, pecunia non olet, il denaro non puzza, da qualsiasi parte arrivi è sempre gradito.
Che il PIL non sia un efficace misuratore del benessere è risaputo da tempi ormai remoti. È passato quasi mezzo secolo (che in economia vale come un’era geologica) dal famoso discorso di Robert Kennedy del 1968 in cui, dopo aver spiegato che “il PIL comprende l’inquinamento dell’aria…le ambulanze per sgomberare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana…la produzione di napalm, missili e testate nucleari” il candidato alla Casa Bianca concludeva affermando che il Pil “misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.
Parole sagge e lungimiranti, ripetute ormai da tanti in questo mezzo secolo, senza mai però attuare provvedimenti seri per cambiare prospettiva.
Il PIL, infatti, considera positivo tutto ciò che fa aumentare la produzione, anche se la causa non è per nulla positiva, dall’incidente d’auto che fa lavorare meccanico e carrozziere, alla porta blindata che sono costretto a mettere per via della delinquenza diffusa. Non importa neppure l’effetto ottenuto, non importa se aumento il benessere, realizzo un desiderio, sono più o meno felice, sano, sicuro. Spesso si tratta semplicemente di risolvere un problema che io stesso ho creato. L’inquinamento che ho prodotto richiede una depurazione il cui costo fa salire il PIL. Chiudono la fabbrica sotto casa e devo andare a lavorare a cento chilometri di distanza pagando autostrade, consumando benzina, pneumatici, aria e vita: io cado in depressione, ma il PIL è felice (anche per il conto del farmacista che mi venderà le benzodiazepine per curarmi l’esaurimento).
Ma la questione più preoccupante che si nasconde dietro l’uso di questo indicatore economico è meno visibile. Qualsiasi passaggio di beni dall’area della gratuità a quella del mercato fa salire il Pil, anche se ci svuota le tasche. Se una spiaggia libera viene privatizzata, un’area gratuita diventa a pagamento, un anziano prima accudito in casa da parenti deve ricorrere a badanti o strutture, il PIL ringrazia.
Per far crescere il PIL spesso devo far diminuire risorse naturali, cosa che non è conteggiata nell’indicatore. Se un territorio possiede, ad esempio, una grande estensione di boschi può decidere di tagliarli per vendere il legname: il Pil fa festa, ma l’ambiente un po’ meno. E la perdita del valore anche economico conseguente al taglio della foresta non viene registrata da nessun indicatore di uso comune.
L’idea del PIL nasce negli anni 30, dopo la prima grande crisi del 29 e interpreta la voglia di crescita, la smania di industrializzazione, la scarsa sensibilità per il consumo di risorse ambientali di quel periodo storico e della ripresa conseguente alla fine della seconda guerra mondiale. Lo stesso Simon Kuznets (Nobel nel 1971, considerato l’inventore del PIL) ne riconosceva chiaramente i limiti, ammettendo che il reale benessere di una nazione “non può essere facilmente desunto da un indice del reddito”
La domanda che verrebbe spontanea a questo punto è perché si continui a usarlo. La risposta non è semplice: forse perché è comodo, o perché non è affatto facile inventarsi un altro indicatore affidabile (i vari tentativi, per adesso non hanno ancora attecchito), o magari, perché conviene a qualcuno.
Si potrebbe pensare che tutto sommato l’uso di un indicatore poco adatto sia un problema ininfluente, che può interessare gli studiosi e chi ama sguazzare fra statistiche e dati teorici. Purtroppo è vero proprio il contrario e l’adozione (e l’adorazione) del Pil condiziona le nostre vite, traducendosi in tagli ai servizi, aumento delle imposte e in mille altri problemi molto concreti. Con ingresso nell’euro ci siamo impegnati a rispettare rigidi parametri economici di debito corrente e storico che fanno riferimento al PIL e molti altri vincoli di bilancio sono legati strettamente a questo indicatore. Tanto è vero che lo Stato spesso ricorre a veri e propri “trucchetti” contabili per rimanere all’interno dei parametri imposti. La fusione di Anas e Ferrovie, due enti che già faticano molto a fare ognuno il proprio lavoro decentemente, rientra in questa logica.
D’altra parte, la scelta di uno strumento di misura non è una cosa secondaria e l’adozione di indicatori poco adatti può portare a conseguenze gravi. A nessuno verrebbe in mente di misurare la velocità dell’auto con un termometro o userebbe la rotella metrica per valutare l’intensità di un suono.
L’aspetto che considero più inquietante è il forte condizionamento che l’adozione di questo bislacco indicatore ha avuto e ha nella nostra quotidianità senza che sia possibile rendersene conto. Voler a ogni costo far crescere il PIL significa infatti sottrarre alle nostre vite i piccoli residui spazi non ancora invasi dall’economia di mercato. Significa far in modo che tutto ciò che è ancora gratuito, libero, accessibile rientri nel campo delle transazioni monetarie (su cui lo stato ritaglia pure la sua fetta di imposte).
Basta fermarsi un attimo a riflettere, far mente locale e allora si capiscono tante cose…
Si capisce come mai, invece di fare strade scorrevoli gratuite si costruiscano assurde e carissime autostrade date in concessione a società private, invece di garantire presidi sanitari diffusi si concentri tutto in mega ospedali che costringono tutti a insensati spostamenti e si accorpino scuole, tribunali, uffici. Invece di fare manutenzione alle scassatissime strade esistenti si preferisca costruirne di nuove, invece di far funzionare decentemente le linee ferroviarie normali si continui a buttare miliardi nell’alta velocità.
Si capiscono anche tutte le norme che, in nome dell’igiene e della sicurezza, rendono impossibile ormai qualsiasi iniziativa personale e obbligano a spese e pratiche inutili, a rottamazioni e sostituzioni forzate di utensili, attrezzi, automobili.
Rendersi conto di quanto queste tre innocenti lettere condizionino la nostra vita quotidiana è importante, ma un discorso troppo lungo rischia di essere noioso e ripetitivo. Meglio allora affidarsi a una favola, come si faceva un tempo con i bambini per allenarli con dolcezza alle fatiche e alle durezze dell’esistenza.
La prossima volta cercherò di raccontare la favola del PIL .

Pubblicato su La Guida del 1 marzo 018