Spiccioli di economia 5 La necessità di ripensare l’economia

Nelle due chiacchierate precedenti ho tentato di far stare in due paginette tre secoli di storia del pensiero economico, scegliendo per ogni secolo un personaggio rappresentativo del suo tempo: Adam Smith per il Settecento, Karl Marx per l’Ottocento e John Maynard Keynes per il XIX secolo.
È evidente che il tentativo di riassumere in poche righe e in parole semplici teorie economiche complesse e personaggi di grande spessore porta a snaturarne il pensiero e a banalizzare concetti. Lo scopo è solo quello di evidenziare ancora una volta come l’economia nasca da opposte visioni ideologiche e risenta dell’epoca, della storia, del modo di pensare e della posizione sociale di chi ha formulato le diverse teorie.
Inoltre, come capita spesso, i grandi uomini che hanno aperto una strada in qualche campo della cultura e del pensiero sono seguiti da pessimi discepoli e da cattivi imitatori. Come i neo-platonici hanno rovinato quello che di buono aveva detto Platone, così i neo-liberisti hanno deturpato e travisato il pensiero di Smith con conseguenze devastanti, l’ingenua utopia di Marx è finita nei gulag sovietici e l’intelligente apertura di Keynes è degenerata in assistenzialismo e debito pubblico incontrollato.
Pare una regola con poche eccezioni e ci deve spingere a diffidare dagli imitatori e rifarsi, se mai, ai maestri, cogliendo la parte profonda e non effimera del loro pensiero.
Ci deve anche far capire che l’economia è una “scienza” viva, che segue e precede gli eventi, li determina e ne è condizionata. È connessa con l’uomo, con la storia, con la politica e, per questo, deve essere continuamente ripensata.
Ogni epoca deve ripensare l’economia, adattarla ai tempi, alla tecnologia, alle risorse, ai problemi. È compito di ognuno di noi, non possiamo delegarlo ai politici né ai cosiddetti tecnici (che proprio in questo campo si sono rivelati tecnicamente disastrosi, come dimostra la storia recente).
C’è bisogno di una riflessione teorica, ma soprattutto sono necessarie scelte pratiche, comportamenti concreti, decisioni. Lavorare, riposarsi, viaggiare, comprare, muoversi sono tutte scelte quotidiane con ricadute economiche. Siamo noi che con il nostro modo di vivere costruiamo il sistema economico di cui facciamo parte.
Con la promessa di occuparmi, dalla prossima chiacchierata, di questioni più pratiche, mi concedo ancora un’ultima incursione nel terreno minato della teoria.
Il peccato originale della scienza economica, a mio giudizio, è quello di dare per scontati i fini, interessandosi solo dei mezzi per raggiungerli. Ma è abbastanza evidente che i mezzi sono in funzione del fine: se non conosco la meta del mio viaggio è inutile che mi scervelli a pensare ai modi migliori per arrivarci. All’opposto della famosa frase attribuita al Macchiavelli, non è però il fine che giustifica i mezzi, ma i giusti mezzi che contribuiscono a rendere corretto lo scopo per cui sono applicati. Fini e scopi sono infatti nel mondo dell’intangibile, restano sospesi nel limbo delle intenzioni e delle utopie, mentre i mezzi sono concreti, reali, immediati.
Se si dà per scontato, come pensavano i liberisti, che l’uomo insegue un fine edonistico, si finisce necessariamente per costruire una teoria basata sul profitto e di conseguenza, sullo sfruttamento di qualcosa o di qualcuno. Se, invece, sostituiamo a questo sfondo di egoismo e di realizzazione personale un desiderio di benessere collettivo cambiamo radicalmente i termini della questione. In fondo basta cambiare pronome, sostituire il “noi” all’ “io”, per cambiare le fondamenta di tutto il sistema.
Come ci insegna la geometria, qualsiasi teorema si basa su postulati accettati a priori. Se cambiamo questi postulati possiamo costruire teorie completamente differenti. La geometria classica si basa sui famosi postulati di Euclide, ma se sostituiamo queste pietre angolari con altre possiamo costruire mondi diversi. Se questo è possibile per la geometria, scienza solida per eccellenza e definizione, lo è ancor di più per quella miscela di leggi, ipotesi, tesi e opinioni che chiamiamo economia.
Il fallimento passato del comunismo e quello prossimo venturo del capitalismo ci può spingere a cercare basi diverse per costruire il futuro nostro e quello dei nostri figli e nipoti. Visto che nessun sistema economico si è dimostrato in grado di assicurare benessere, giustizia, rispetto per uomo, animali e ambiente dobbiamo inventarne e sperimentarne uno nuovo.
Ma inventare qualcosa di valido e diverso non è facile. È necessaria la giusta miscela di coraggio e di prudenza, bisogna saper sognare ma anche tener ben appoggiati i piedi per terra. Di cialtroni che promettono e progettano riforme e rivoluzioni è purtroppo pieno l’orizzonte politico, da ogni parte lo si guardi.
Forse l’unico cambiamento stabile e fecondo è quello che nasce dall’interno di ognuno di noi per poi riversarsi all’esterno attraverso la condivisione e la collaborazione. Non è un’idea nuova, ha almeno duemila anni ed è stata ripresa con espressioni diverse in varie epoche. “La vera rivoluzione dobbiamo farla dentro di noi”, ha lasciato scritto Ernesto “Che” Guevara, uno che di rivoluzioni aveva una certa esperienza e che forse, alla fine, aveva intuito che non basta la violenza per cambiare le cose. A mezzo secolo quasi esatto dalla morte, il Che è finito su poster e magliette e la sua Cuba resta in bilico fra dittatura e cambiamento. Il mercato da una parte e la nostalgia ideologica dall’altra si sono mangiati il rivoluzionario e l’uomo, riducendolo a icona o a simbolo.
Pochi, forse, ne hanno capito il pensiero, il travaglio personale e l’evoluzione umana.

Pubblicato su La Guida del 18 gennaio 018