Statuti 3 Una democrazia partecipata

La struttura che garantiva il funzionamento della vita amministrativa locale a Valgrana nel 1400 era simile a quella attuale, con un Consiglio della Comunità e due sindaci affiancati a due altri sindaci “delle libertà”. Questi ultimi, oltre a custodire “capitoli, franchigie e ogni buona consuetudine” avevano anche il compito di intervenire a favore di coloro che non erano in grado di difendersi da soli.
La vera differenza, rispetto ai nostri giorni, era nella forte suddivisione del potere effettivo grazie a quelle che oggi chiameremmo “commissioni”. Gli Statuti parlano di “bonos homines”, cioè di cittadini riconosciuti onesti, capaci, affidabili, competenti. L’unica parola “bonos” vale almeno quattro termini italiani, a riprova di quanto si diceva all’inizio di questa chiacchierata in tema di traduzioni (d’altra parte, il “Buon Pastore” del Vangelo non è un pastore buono, ma, appunto, capace, entusiasta del proprio lavoro e coscienzioso).
Ogni settore della vita amministrativa era regolato da queste “commissioni” di uomini onesti e affidabili, scelti tra i comuni cittadini disponibili a dare il loro contributo alla gestione della Comunità. Dovevano prestare giuramento, rendere conto del loro operato e avevano ampi poteri decisionali in tutti i campi di loro competenza. Si occupavano di viabilità, della rete irrigua, di stabilire prezzi e misure, delle questioni urbanistiche, sanitarie, fiscali, commerciali, zootecniche. Se dividiamo il numero di abitanti di Valgrana per il totale dei componenti delle numerose commissioni, dobbiamo immaginare un paese in cui tutti intervenivano attivamente nella gestione e nel controllo della pubblica amministrazione. Una vera e propria democrazia partecipata, in cui ognuno faceva la sua parte, con incarichi limitati nel tempo (in genere duravano quattro mesi) e non cumulabili. Si prestava molta attenzione al fatto che nessuno potesse abusare di una carica pubblica o approfittarne per la propria privata convenienza.
Fra queste figure di “ufficiali” della Comunità, molto importanti erano i “capitulatores” che avevano il compito di “fare, correggere, emendare e rinnovare, se necessario, tutti i Capitoli di Valgrana”.
Gli Statuti non erano considerati un insieme di leggi intoccabili, ma un repertorio di regole da adattare, rinnovare e aggiornare e questi cittadini erano incaricati di adeguare le normative alle esigenze contingenti. Un buon uso del concetto, spesso scivoloso e pericoloso, di flessibilità.
Gli stessi “capitulatores” dovevano chiarire ogni dubbio che fosse sorto nell’interpretazione delle norme, in modo da non lasciare zone d’ombra nella legislazione. Erano considerati responsabili di quanto avevano scritto e dovevano spiegarlo, correggerlo e renderlo accessibile e chiaro.
Un’altra interessante commissione di quattro bonos homines aveva il compito e il “pieno potere” di “facere concordia” fra le persone di Valgrana, in merito a tutte le “questioni sorte fra di loro”. Erano cittadini stimati e considerati “sapientes”, eletti “ad brevia”, cioè senza formalità, col ruolo di pacificatori, per evitare che attriti e contrasti degenerassero in liti in grado di minare l’unione della Comunità. Una funzione preventiva che denota saggezza: la soluzione dei piccoli problemi non è ignorarli, ma risolverli prima che diventino grandi.
Nelle prime due Raccolte sono contenuti articoli di carattere generale e di diritto civile e amministrativo. Il verbo che si ripete con maggior frequenza è “teneatur” (sia tenuto) che esprime un obbligo, com’è normale in un compendio di leggi. Curiosamente, però, il soggetto obbligato non è l’abitante di Valgrana, ma il castellano, cioè il rappresentante del Signore. Un rovesciamento di prospettiva che mette subito in chiaro che lo scopo degli Statuti è proprio quello di garantire libertà e franchigie ai cittadini. Un po’ come se le leggi attuali, invece di dettare norme per regolare ogni aspetto della vita della gente comune imponessero, in primo luogo, vincoli e codici di comportamento al governo e ai ministri.
Altra differenza rispetto ai tempi attuali, il presupposto di fondo della correttezza del cittadino “di buona fama”, a cui si doveva prestare fede: “et credatur”. La buona fama diventava così un capitale tangibile e spendibile e questo stimolava a comportamenti virtuosi. La persona, fino a prova contraria, era riconosciuta onesta e la sua parola degna di fiducia. Perdere questo pubblico riconoscimento di correttezza e affidabilità poteva essere un cattivo investimento e questo incentivava a evitare frodi. D’altra parte, il cittadino onesto sapeva che “per legge” non si poteva dubitare della sua parola.
Nei nostri tempi di burocrazia vessatoria e di frequente inversione dell’onere della prova, invece, il cittadino, trattato preventivamente da imbroglione, è portato a dimostrarsi tale e si genera un circolo vizioso di reciproca diffidenza fra amministrati e amministratori.
Pregiudizi e preconcetti spesso condizionano i comportamenti: trattare qualcuno da delinquente senza motivo è il modo migliore per creare delinquenti. La fiducia, invece, può generare un clima di correttezza reciproca in cui tutti sono stimolati a dare il meglio di sé, anche per non venir meno alle aspettative e ricambiare il buon trattamento ricevuto.

Pubblicato su La Guida del 13 aprile 2017