Statuti 2 La riscoperta del nostro passato collettivo

Quasi mezzo secolo fa, quando passavo ore a penare su declinazioni e autori latini, rimpiangendo il tempo sottratto al gioco e agli amici, non avrei mai immaginato che un giorno lontano mi sarei appassionato alla traduzione di un testo tardo medievale, tanto da dedicare al tentativo di decifrazione e comprensione qualche mese della mia esistenza. Sono gli scherzi di quello strano, difficile e meraviglioso groviglio che noi chiamiamo vita: il cammino che a noi pare lineare ci riporta infinite volte a ripercorrere gli stessi luoghi con occhi diversi e a chiudere cerchi senza neppure averne la piena percezione. E ad accorgersi, sempre troppo tardi, che tutto è prezioso e che nulla va perso. Anche le ore “sprecate” sui libri.
La lingua è la porta d’accesso alla cultura, alla storia e alla vita quotidiana e la traduzione è la chiave che ci permette di aprire quella porta e di affacciarci oltre l’uscio. Tradurre può essere un gioco appassionante: ci regala la soddisfazione della scoperta, la possibilità di intravvedere cose nascoste, il piacere di immaginare in maniera realistica.
Il mio tentativo di traduzione degli Statuti di Valgrana del 1415 nasce proprio dal piacere di scoprire un latino fortemente contaminato dall’occitano, dal piemontese e dall’italiano e di gettare uno sguardo su un periodo storico di grande interesse per i nostri paesi e le nostre valli.
Per i piccoli comuni era fondamentale poter contare su norme scritte per garantirsi uno spazio di autonomia al riparo dalle prepotenze e dall’arbitrio dei potenti e nel Quattrocento il latino era ancora il mezzo obbligatorio per dare forma allo ius proprium, il diritto locale, che traduceva in norme le antiche consuetudini.
La formalizzazione scritta del diritto è stata una conquista importante e la “concessione”, da parte dei “Signori del Luogo”, degli Statuti un passaggio verso un progressivo superamento del retaggio feudale. Come capita per ogni regime assoluto, la parola “concessione” non indica un regalo gratuito frutto della bontà d’animo del signore, ma è segno di un cambiamento nella mentalità popolare, di una presa di posizione che ha costretto il potere feudale a venire a patti. È il germe di un’autocoscienza dei propri diritti che porterà nei secoli, con un percorso faticoso e tutt’altro che lineare, a quello che oggi chiamiamo “democrazia”. Un nome che ci dice ormai poco e di cui, purtroppo, stiamo perdendo il gusto e l’abitudine mentale.
Anche per questo, in tempi in cui rischiamo di dimenticare quanto sia costato ai nostri progenitori regalarci uno stato democratico e viviamo in un clima di stanchezza e sfiducia nei confronti delle istituzioni che spinge molti a cedere alle facili promesse dall’imbonitore di turno, non è inutile riprendere alcuni passi di queste antiche norme. Non tanto e non solo per curiosità di esploratori del tempo che fu, ma proprio per capire il presente e immaginare il futuro. Perché, come scriveva Umberto Eco, “la riconquista del nostro passato collettivo dovrebbe essere tra i primi progetti per il nostro futuro”.
Riscoprire il nostro passato “collettivo” ci permette anche di sentirci parte di un territorio e di un popolo, di capire il legame con chi ci ha preceduti e l’obbligo di trasmettere a chi ci seguirà i valori ricevuti in dono.
Gli Statuti comunali, per un lungo periodo che va dal basso medioevo all’età moderna sono stati la principale fonte del diritto locale. Oggi la parola è ritornata d’attualità: la legge 142/1990 ha imposto a ogni comune l’adozione di uno Statuto. Purtroppo, quella odierna non è che una penosa parodia del passato e lo Stato, nonostante le periodiche e sbandierate promesse di decentramento, ha di fatto diminuito progressivamente ogni autonomia economica e decisionale di comuni ed enti locali, riducendoli al rango di esattori, controllori e passivi esecutori di normative, spesso astruse, prodotte in sedi lontane. Ai giorni nostri, grazie anche a quelle fabbriche di burocrazia che sono diventate le regioni e l’Unione Europea, viviamo il paradosso di una finta autonomia locale sottomessa a un centralismo inefficiente, sommando i danni dei due sistemi.
Ben diversa la situazione nei secoli di fine medioevo, in cui la Comunità era il fulcro della vita associativa, il luogo in cui si prendevano decisioni e si gestiva l’ampio capitale condiviso rappresentato dai beni comuni.
È vero che, come sempre quando si guarda al passato, bisogna stare attenti a non mettersi gli occhiali rosa e cadere in facili generalizzazioni: si trattava, comunque, di tempi duri, precari e turbolenti in cui epidemie, carestie, guerre, saccheggi, prepotenze dei vari signori erano ordinaria amministrazione. Resta però il fatto che, per un lungo periodo, i comuni sono stati centri decisionali importanti, dotati di un buon livello di autonomia e “orgogliosi” delle loro prerogative.
Leggendo gli Statuti traspare un senso di fierezza e di dignità che in seguito, mi pare, sia andato smarrito. L’azione “normalizzatrice” dei Savoia, la centralizzazione, la crescente burocrazia hanno, nei secoli successivi, prima ridotto e poi soffocato questo spirito di autogestione dei comuni, cancellando di fatto ogni traccia del diritto locale.
Gli Statuti ci permettono di gettare uno sguardo su quel periodo e ci fanno scoprire cose inaspettate, a volte retaggio di epoche lontane, a volte, al contrario, molto avanzate ed attuali. Se li leggiamo con gli occhi rivolti al presente possiamo fare interessanti confronti su come eravamo e come siamo diventati.
La traduzione delle diverse norme ci permette anche di addentrarci in una lingua ufficiale, il latino, che stava progressivamente inglobando parole, desinenze e costruzioni grammaticali dell’italiano, dell’occitano e del piemontese. Ci restituisce anche termini ora scomparsi, soprattutto nel settore dei lavori agricoli e artigianali, delle misure e del commercio. Le parole piemontesi e occitane che si sono intrufolate nel latino ufficiale sono anche il segno della “genuinità” degli Statuti e del loro radicamento nel luogo in cui sono nati. Chi li ha scritti aveva abbastanza cultura da usare il latino, ma era anche abbastanza esperto di agricoltura, allevamento e commercio da avere conoscenza diretta dei termini tecnici e dei problemi. In altre parole, era uno del posto e aveva radici contadine. Sono quindi leggi nate dal basso, non imposte dall’alto, scritte in modo accessibile e tarate sulla quotidianità.
E questo può essere un primo spunto di riflessione e di confronto con l’attualità. Un secondo è dato dal semplice paragone dei numeri. Gli Statuti di Valgrana sono costituiti da 358 articoli divisi in 12 raccolte. Poco più di trecento brevi “leggi” che spaziavano in tutti i campi del diritto, da quello penale a quello civile, fiscale, amministrativo, dal diritto di famiglia alle prescrizioni per pesi e misure, dalle norme agricole e zootecniche a quelle che regolavano il commercio e l’artigianato, fissavano le festività, stabilivano i criteri urbanistici, difendevano i beni comuni. Per i tempi, si trattava comunque di un insieme di norme molto corposo, di dimensioni maggiori rispetto ad analoghi compendi legislativi di altri comuni. Niente a che vedere, però, con le 75 mila leggi suddivise in infiniti paragrafi, commi e regolamenti applicativi che rendono difficile la vita ai nostri giorni e finiscono per essere controproducenti, confuse e contraddittorie.
Il confronto fra ieri e oggi ci può far vedere, con la forza dei numeri, quanto si sia complicata la vita e come l’ansia di voler regolamentare tutto possa produrre l’effetto di insofferenza e indifferenza per ogni regola, anche per quelle – poche – che sarebbero davvero indispensabili.

Pubblicato su La Guida del 6 aprile 2017