Terra e polvere

Invecchiando, sparisce la memoria a breve termine e spesso ci si ritrova a inseguire vanamente nomi, numeri, addirittura facce, oppure a chiedersi cos’è che stavamo dicendo, incapaci di riannodare il filo di un discorso interrotto. In compenso, riaffiorano alla mente ricordi persi nella lontananza degli anni d’infanzia, con particolari, colori e odori molto vivi: un cinema 3D realistico che non ha bisogni di schermi e connessioni a banda larga e non paga canoni nascosti proditoriamente nelle bollette elettriche.
Pochi giorni fa ho rivisto la scena del Vicario di Borgo durante la funzione delle Ceneri: un inizio di quaresima di mezzo secolo fa, con noi chierichetti a inaugurare la sequela di fedeli che ricevevano in fronte il piccolo segno grigio accompagnato dalle parole latine.
Sono contento quando la memoria mi regala il replay di questi brevi filmati girati dagli occhi oltre cinquant’anni fa, ma questa volta la formula ripetuta dal Vicario mi ha lasciato perplesso.
“Ricordati che sei polvere e polvere ritornerai”, la frase che accompagnava allora l’imposizione delle Ceneri (e la solennità del “memento” latino aveva ben altra forza dello sbiadito imperativo italiano) ci arriva dalla Bibbia, Genesi 3,19, ma forse con le varie traduzioni si è perso il senso del testo originale.
La parola che non mi convince è proprio “pulvis”, polvere che ridurrebbe l’uomo, la sua storia, la nostra fatica millenaria, le speranze, gli sforzi, le attese a poco più di niente: polvere, appunto. Un termine che annienta, che delude, che fa venir voglia di rassegnarsi. La polvere è fastidiosa, inutile, sporca, ingombrante. Intasa, soffoca, intristisce.
Pur nella delusione e nella “rabbia” conseguente alla scoperta di quello che chiamiamo “peccato originale”, il Creatore non può aver usato quella parola per definire la sua creatura. Se così fosse, tanto varrebbe che con un piccolo soffio avesse eliminato quel velo di polvere, residuo dell’esperimento fallito e deludente della creazione.
Per capire meglio il testo bisogna liberarsi dall’espressione latina usata, ai tempi della mia infanzia, nella cerimonia delle Ceneri (l’attuale liturgia consente di usare una formula meno opprimente, anche se forse meno efficace, di quella ripetuta infinite volte dal parroco di allora) e leggere tutto il periodo, inserendolo nel contesto. Siamo subito dopo il famoso episodio della mela, quello che abbiamo etichettato come “peccato originale”. Prendendo a prestito le parole di una nota enciclopedia, Dio scaccia l’uomo dal paradiso terrestre e lo condanna alla fatica e alla morte: “con il sudore della fronte mangerai il pane finché non tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere sei e polvere ritornerai”. Anche il testo della CEI parla dunque di “polvere”.
Ma se sostituiamo terra a polvere, come ci suggerisce il contesto, cambiamo profondamente il significato. “Terra sei e terra ritornerai” suona molto meglio. La terra è vita, è utile, è feconda: non è più una condanna al nulla, ma un giusto ridimensionamento della cieca superbia umana. La terra è nostra materia di partenza e arrivo, l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine.
In mezzo, il soffio divino a dar vita non solo biologica all’humus da cui nasciamo e a cui torneremo. Un respiro prestato, che dovremo restituire alla fine della nostra strada, quando scadrà quello strano contratto a termine che chiamiamo vita. Allora le molecole ritorneranno solo molecole, fatte di quelle poche decine di elementi che costituiscono l’universo e riprenderanno il gioco delle combinazioni. In attesa, magari, che i mattoni ricompongano un nuovo edificio e che il Creatore si chini nuovamente a soffiargli dentro la ruah, prestando il suo eterno respiro a una nuova fugace esistenza.
Nei mesi scorsi alcuni articoli sulla Guida sottolineavano l’importanza dei cimiteri come luoghi di memoria collettiva e guardavano preoccupati alla tendenza attuale a considerare i morti come un ingombro che è necessario ridurre. Tendenza che fa pensare a un futuro in cui il ricordo dei defunti sarà solo più affidato alle memorie magnetiche dei computer. Condivido questa preoccupazione, pur senza entrare nel merito di questioni delicate, personali e dolorose, come la scelta fra cremazione o inumazione. Per il discorso che facevo prima, sarebbe bello e naturale, al termine del percorso di vita, ritornare davvero alla terra, essere seppelliti in un bosco e riciclarsi in fronde d’albero, foglie e fiori.
Da secoli ormai questo non è più possibile, per motivi anche validi, e siamo costretti a finire in modo poco naturale una vita ormai lontana, in tutte le sue fasi, dalla stessa natura. Questo non toglie però nulla alla funzione dei cimiteri, indispensabili luoghi di memoria, di incontro, di silenzio, di meditazione e di pace.
Mi piacciono i cimiteri dell’estremo nord dell’Europa, grandi parchi accoglienti in cui è bello passare ore all’ombra di grandi piante e immersi nel verde del prato. Mi commuovono i piccoli cimiteri di montagna, quattro croci e un muretto a pietre, spesso con una vista impagabile a rallegrare il sonno eterno dei pochi ospiti. Mi intristiscono loculi, colombaie e simili condomini per defunti, che allontanano i corpi dalla terra e li impilano in verticale, prigionieri da vivi come da morti di quel cemento armato simbolo della bruttezza dei tempi nostri.
Credo che l’importanza dei cimiteri stia soprattutto nei nomi (al giorno d’oggi accompagnati anche dalla foto), negli spazi e nel silenzio. Lo scriveva Umberto Eco, citando un testo antico, che “nuda nomina tenemus”, ci resta soltanto più il nome. Può sembrare riduttivo, ma non è affatto poco. Il nome vuol dire il ricordo, l’affetto, la riconoscenza. Il nome, per la Bibbia, è tutto, è l’essenza, la presenza. “Non nominare il nome di Dio, sia santificato il tuo nome” sono formule che ci ricordano come per i semiti il nome non sia solo l’evocazione della persona, ma sia proprio la persona stessa.
D’altra parte, Giovanni inizia il suo Vangelo dicendo che all’inizio (in greco en arché, ma è la traduzione del Bereshit che troviamo in Genesi) c’era il logos, la parola, il nome. Il nome precede la cosa e la rende possibile, così come il progetto viene prima della casa, l’idea viene prima della realizzazione. E il nome resta anche dopo, alla fine del ciclo vitale. È quello che rimane di noi al termine del nostro percorso.
È bello che questi nomi trovino spazi verdi e fioriti, ampi e tranquilli in cui possano continuare gli incontri e le relazioni. Perché il ricordo è una forma e un’occasione di incontro. Fra vivi e con i defunti a cui continuiamo a essere legati da amicizia, riconoscenza, amore. E gli spazi calmi e silenziosi dei cimiteri servono soprattutto a noi vivi, per ritrovare fisicamente il contatto con chi ci ha preceduti e per imparare a convivere serenamente con l’idea della morte. È forse questa la profonda differenza fra la solennità cristiana dei Morti e le carnevalate americaneggianti di Hallowen. Zucche, streghe e maschere servono a esorcizzare la paura dell’inevitabile fine, con scherzi e altre sguaiatezze, mentre la sobria, ma non triste commemorazione cristiana ci ricorda che la morte non spezza il filo della relazione e dell’amore.
La morte, quando arriva dopo una vita vissuta pienamente, non è una sottrazione ma un’addizione, crea legami più leggeri, efficaci, liberi e duraturi.
Non è cosa facile da capire o accettare, ma è vera, una verità che si scopre strada facendo, come tutte le verità che incontriamo sul cammino della vita. Forse non esistono verità rivelate, solo verità regalate o verità guadagnate.
O, magari, tutte le piccole o grandi verità che riusciamo a intravedere sono insieme un regalo e una conquista, richiedono una volontà e uno sforzo, ma, alla fine, arrivano sempre come dono.

Cervasca, 21-10-016 pubblicato su La Guida del 27-10-016