Speranza necessaria

Noi che non possediamo certezze e abbiamo scarse riserve di fede,
noi che continuiamo ad accumulare domande e a restare in attesa di risposte,
noi che non riusciamo proprio a ingoiare le pillole indigeste dei dogmi e preferiamo masticare con lentezza ogni piccolo boccone di verità prima di inghiottirlo,
noi che temiamo corvi e talpe solo nell’orto e nel frutteto,
noi che pensavamo ingenuamente che i maggiordomi fossero ormai confinati nei racconti di Woodehouse e colpevoli solo nei gialli anacronistici di Agatha Christie,
noi che crediamo che la normalità sia un obbligo soprattutto per chi occupa posti importanti e siamo ugualmente dispiaciuti nel vedere la ministra Fornero andare a far shopping in boutique con un corteo di cinque auto e dieci uomini di scorta e il povero papa Benedetto impossibilitato a versarsi da solo un bicchiere di vino, pastore stanco isolato dal gregge e prigioniero di una corte imperiale e di un cerimoniale soffocante,
noi che amiamo gli elettrotecnici, sopportiamo gli odontotecnici, ma proprio non riusciamo a digerire i governi tecnici,
noi che fatichiamo sempre di più a capire questi nostri tempi e ci sentiamo spesso spaesati ed ex-temporanei, come se qualcuno ci avesse d’improvviso sfilato il tappeto da sotto i piedi,
noi – nonostante tutto – possiamo e dobbiamo coltivare speranze.
Anzi, possiamo coltivare “speranza”: il plurale disperde il concetto in mille rivoli di occasioni contingenti – spero di stare promosso, di guarire, di vincere il concorso, di trovare l’anima gemella e via discorrendo-.
Quella che ci serve davvero è una speranza al singolare, capace di riassumerle e comprenderle tutte e di non essere spazzata via dalle inevitabili delusioni seguite alle nostre molteplici aspettative.
Perché il cristiano è testimone di una speranza, molto più che portatore di una fede.
Ma speranza non è un sostantivo facile, non ha nulla dell’ottimismo patinato di televisione, riviste e pubblicità, non prevede necessariamente un lieto fine. Non è una comoda nave da crociera e neppure uno yacht da casti governatori ciellini, piuttosto una scialuppa o addirittura un relitto galleggiante a cui aggrapparsi, un mancorrente a cui tenersi forte quando il sentiero si fa troppo ripido. Non è una pillola antidepressiva, una sorta di sostituto spirituale del Prozac, neppure una pratica yoga o una delle tante versioni del “pensiamo positivo” che cerca di rendere sopportabili le nostre vite.
E’ un sostantivo che non è sinonimo di illusione, che non colora tutto di rosa e non fa sconti alla durezza della quotidianità. Una parola che non promette facili soluzioni, non regala bacchette magiche e non mette al riparo da dubbi, fallimenti e neppure, nonostante l’apparente contraddizione, dalla disperazione.
Ma che permette di ripartire, di rialzarsi. In termini evangelici, di tentare una resurrezione. O, almeno, di sperarla.
E, al contrario della fede, è trasmissibile ad altri e si propaga con forza di contagio, con facilità e senza neppure bisogno di pratiche apposite. Con tutto il rispetto per l’omonima istituzione vaticana dall’inevitabile nome latino, la fede, infatti, non può essere oggetto di alcuna Propaganda. Al massimo si può diffondere una buona notizia, un annuncio più o meno lieto, non certo una fede, che è scelta personalissima e responsabile, un misto di azzardo e fiducia che deve tradursi in pratica operativa e in scelte concrete.
L’eventuale fede abita quella regione dell’animo che definiamo intima, non ama le esternazioni. La speranza, invece, è una ragazza socievole e aperta, è impossibile tenerla nascosta.
Avevo fatto un cenno alla parola “speranza” nell’ultima parte di “Una storia terra-terra” leggibile su www.leleviola.it. Riporto qui una parte del testo, perché mi pare in tema con la chiacchierata appena fatta, anche ad uso di chi non ama il computer o preferisce ancora la carta ai led come sfondo ai pensieri.

“Speranza è una parola che mi piace, molto più di fede e perfino più di carità, se vogliamo completare il trio delle virtù del vecchio catechismo.
Me le sono sempre immaginate, chissà perché, come tre sorelle. Fede la vedo un po’ altezzosa, sicura di sé, vestita bene ma senza troppa fantasia. Ha la bocca sottile, occhi grigi, portatura eretta e andatura decisa, di chi sa sempre dove andare. Non mi è particolarmente simpatica, se devo essere sincero; preferisco una sua amica, un tipo più semplice e dimesso di nome Fiducia.
Carità per me è una signorina nubile vestita da crocerossina, con la cuffietta a coprire i capelli, gli occhialini, l’aria di bontà mielosa e obbligatoria e quell’età indefinibile che hanno gli esseri asessuati per distaccato disinteresse alle bassezze umane. Anche lei mi è molto meno simpatica del fratello, Amore, più grossolano e invadente, ma spontaneo, sincero e disinteressato.
Speranza invece è una donna rotondetta e simpatica, col viso sempre sorridente. E’ una persona alla buona, di una bellezza non vistosa e mai ostentata, porta abiti semplici e sportivi, scarpe larghe da camminarci comoda, adatte a tutti i terreni.
E’ ottimista per natura, ma anche per scelta e per necessità.
Mi piace anche per quello.
Speranza non ha certezze, come la sorella Fede, e neppure lo sguardo distaccato di Carità. Lei è un tipo concreto, sa che la vita presenta a tutti un conto salato, conosce la fatica della quotidianità.  
Ma è testarda, sa che a piccoli passi si arriva dappertutto, sa che l’ostinazione dolce alla fine la spunta.
Sa che vince non chi si crede invincibile, ma chi riesce sempre rialzarsi perché è abituato a cadere.
A differenza delle due sorelle, Speranza si rende benissimo conto che da sola  non ce la farebbe mai e che c’è davvero bisogno dell’aiuto di tutti, Dio compreso, per continuare comunque a sperare.”

Cervasca, 29-5-012                    lele
Pubblicato sul Granello del giugno 012