Attesa

L’uomo vive di attesa. Quando si smette di attendere è veramente la fine (o l’inizio, se lo guardiamo dall’altra parte).
Si attende il diploma, la laurea, il concorso, la scuola e la fine della scuola.
Si attende il lavoro e poi la fine del lavoro, che di questi tempi non arriva mai.
Si aspetta un figlio: prima il concepimento, poi il parto, poi i primi passi, le prime parole, l’asilo, il primo giorno di elementari. Poi si aspetta che torni il sabato sera, guardando nervosi l’orologio e scambiandosi frasi rassicuranti. Poi ancora si aspetta che passi a trovarti, due parole in fretta e furia ed è già sulle scale, i giovani, si sa, non hanno mai tempo, hanno sempre qualcos’altro da fare.
Qualcuno aspetta ancora Godot che tarda sempre ad arrivare, o un Principe Azzurro di passaggio con cappello, piume e carrozza, o la sua versione femminile per noi maschietti.
I pendolari aspettano un treno in perenne ritardo, pregando che un bel giorno finisca la truffa dell’Alta Velocità e si ritorni a una Normale Puntualità, a vagoni riscaldati e puliti, a porte che fanno il loro semplice lavoro di aprirsi e chiudersi.
I malati aspettano l’ora di visita, i prigionieri l’ora d’aria, i vecchi dell’ospizio che passi finalmente qualcuno a regalare un’ora diversa dalle altre, mentre invidiano in silenzio la vicina che ha una figlia tanto simpatica che viene tutti i giorni.
In collegio, in quinta elementare, aspettavo che l’altoparlante dicesse il mio nome per correre in parlatorio a rivedere papà e mamma. Stavo lì in piedi nel cortile asfaltato accanto alla pila di mattoni ad abbracciare il freddo mentre i compagni giocavano a palla prigioniera. L’attesa si impara fin da piccoli e sarà per quello che continuo ad associarla a un senso di freddo.
Poco fa aspettavo la pioggia per bagnare l’orto, ora aspetto che prima o poi finisca di piovere, alternando la scrittura di queste righe con frequenti giri nella cantina allagata a controllare la pompa che sta buttando fuori acqua.
Aspettiamo che arrivi la prima neve per colorare il mondo di bianco e ripulirci dentro e fuori, poi aspettiamo che smetta finalmente di nevicare e arrivi primavera a liberarci dalla fatica di spalare. Chi vive in campagna aspetta sempre qualcosa, i sarsèt che regalano le prime insalate fresche d’inverno, i pomodori a S. Giovanni, la luna crescente o quella calante, il tempo delle semine o dei raccolti.
Quando non rimane altro da attendere, si attende perfino la morte. Sorella morte, come diceva Francesco, la grande liberatrice, che magari si fa pure aspettare. Perchè è impegnata altrove, in posti dove carestie e guerre la obbligano a un lavoro straordinario, oppure perchè tenuta lontana da crudeli e stolte pratiche di accanimento capaci di prolungare all’infinito l’agonia.
I cattolici aspettano la Resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà, amen, e lo dicono forte durante la Messa dai tempi di Nicea, senza peraltro che si intraveda all’orizzonte l’alba di cieli e terra nuova. Gli ebrei stanno ancora aspettando il Messia e intanto si chiudono dentro muri e check point e progettano la guerra prossima ventura per difendere la loro personale idea di terra promessa. I mussulmani sognano paradisi rallegrati da vergini disponibili forse per consolarsi della rigida separazione dei sessi che si sono imposti. Cosa sognino le donne mussulmane non riesco a immaginarlo. Degli amici islamici, di cui ho il massimo rispetto, è difficile parlare perchè troppi hanno detto parole ispirate a razzismo o paura e si rischia di associarsi al disgraziato coro o urtare sensibilità messe alla prova da attacchi volgari. Ma tacere ed essere “politicamente corretto” non è nel mio DNA.
I buddisti non aspettano nulla, loro imparano a vivere senza desideri, a liberarsi da ogni aspettativa. E’ certamente saggio ed è pure di moda, ma non attendersi proprio niente lo trovo, tutto sommato, una triste attesa. Rinunciare a desideri, slanci ed emozioni per evitare sicure delusioni può aumentare la serenità, ma al prezzo di una calma piatta che non trovo troppo entusiasmante.
Gli ultimi comunisti aspettano ancora che da qualche parte si levi il sol dell’avvenire.
I primi cristiani, a leggere Luca, Atti e le lettere, aspettavano a minuti la parusìa, il ritorno glorioso di Cristo che alcuni testi davano per imminente. Il fatto che queste promesse, vere o apparenti, non si siano poi realizzate nei tempi previsti è stato comunque un grave problema per le prime comunità, come testimoniano le missive di Paolo.
Cristo si aspettava un mondo in cui fossero superate le convenzioni religiose e “i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (Gv 4,23).
In Avvento aspettiamo che si rinnovi il miracolo di un Dio che viene quaggiù a condividere i nostri dubbi, le nostre paure, e anche le nostre attese.
E’ una buona occasione per ragionare sul significato che ci piace dare alla parola “attesa”.
Perché l’attesa è collegata alla speranza che si realizzi qualcosa e la speranza è un solido molto malleabile e duttile: la possiamo stirare, comprimere, allungare, dividere in lamine sottili e in fili impalpabili, diluire in dosi infinitesimali.
Ma anche lei, alla fine, si esaurisce.
E l’attesa può rinforzare e confortare, ma può anche uccidere, addirittura annientare. Un’attesa infinita può risucchiare tutta la vita da un uomo o una donna, consumarla lentamente dal di dentro. Una notte troppo lunga esaurisce qualsiasi combustibile, fa finire l’olio di ogni lampada; stolti o prudenti danno fondo, comunque, a ogni riserva.
L’avvento può ricordare il tormento dell’attesa infinita, di quell’altalena di aspettative e speranze, illusioni e delusioni su cui corrono molte vite. Una strada con continui saliscendi, una sorta di ottovolante, un rosario di eventi attesi che generano delusioni fino a svuotare il serbatoio della fiducia.
La luce che illumina il sorriso dei bambini si rivede solo a sprazzi negli occhi dei ragazzi e sovente muore nello sguardo opaco e nella risata forzata o sguaiata dell’adulto e nelle rughe di sofferenza del vecchio. La notte troppo lunga riesce a spegnere ogni traccia di fiamma; resta solo un fuoco freddo di carboni.
E Dio, a leggere i sacri testi, sembra non essere troppo sollecito nell’intervenire, non pare avere poi tutta quella fretta che ci aspetteremmo da chi è chiamato in soccorso. Sia Matteo 14 che Marco 6 nel raccontare della tempesta sul lago, della paura e degli sforzi disperati ai remi degli apostoli (che pure erano professionisti nel settore della navigazione lacustre, quindi non gente che si faceva prendere dal panico al primo soffio di vento) precisano che Cristo si decide finalmente a intervenire solo alla quarta vigilia, cioè a mattino incipiente. Il che può aggiungere un pizzico di suspence alla narrazione letteraria ( i nostri arrivano sempre quando tutto sembra perduto e Dio non fa eccezione), ma deve aver messo a dura prova i nervi e la fiducia del gruppo di pescatori.
Se non vogliamo rinunciare a ogni attesa, come suggeriscono certe religioni orientali, ma neppure farci consumare dall’attesa, come capita a chi proietta in essa tutte le proprie speranze, siamo obbligati a imparare la difficile arte di aspettare.
Siamo obbligati a non lasciare morire in noi un giusto senso dell’attesa
Dobbiamo capire quale sia l’attesa giusta, libera dall’ansia, libera dall’illusione, libera dall’aspettativa. Ma non per questo rassegnata o distratta.
L’attesa che costruisce spazio per ciò che dovrà arrivare.
Perché ciò che dovrà arrivare, arriverà solo in base al posto che gli avremo preparato.
E non sarà certo una parusìa, un ritorno glorioso ed eclatante, associato a giudizi e ricompense, sarà un Natale, cioè la nascita di un bambino sconosciuto in un posto marginale. Evento in grado di destare l’attenzione solo dei genitori interessati e probabilmente preoccupati, di un paio di animali incuriositi dal trambusto che avranno continuato a ruminare e di qualche pastore insonne e curioso.
Dobbiamo imparare a non proiettare l’attesa nel futuro, ma a farla stare tutta nell’unico tempo di cui possiamo disporre, il presente (Cristo dice, nel brano citato di Giovanni 4, “viene il tempo ed è ora”; l’ora e il qui sono le dimensioni uniche del lieto annuncio).
Dobbiamo evitare di aspettarci finali eclatanti, bacchette magiche e soluzioni in technicolor o in 3D. Il Regno di Dio sta tutto in un seme che cresce, evento dalla straordinaria forza vitale, ma pur sempre impercettibile.
Mi piace un brano di Soeren Kierkegaard, una volta tanto di facile comprensione, in cui il filosofo danese parlando di Abramo e di Sara avverte che “chi spera sempre la cosa migliore invecchia perché deluso dalla vita. E chi si tiene sempre pronto al peggio invecchia anche prima…invece Sara e Abramo erano così giovani da poter desiderare; la fede aveva conservato il loro desiderio e con esso la giovinezza”.
Senza entrare nel merito della fede, credo proprio che il segreto per imparare ad attendere sia nel saper mantener giovane l’attesa, nel non lasciarla invecchiare, nel conservare intatto il desiderio.
Intanto, mentre mi distraevo scrivendo queste umide considerazioni, l’attesa che la pompa ad immersione finisse di svuotare la cantina è finita e le patate sono riemerse. Vino e birra, per fortuna stanno ai piani alti e i cavoli li abbiamo salvati in tempo da una morte per annegamento.
Ora posso aspettare con calma l’ora di cena.

Cervasca, 7 novembre 011                lele