Bisogno di compagnia.

Non so se Dio esista: benedirò, a suo tempo, la morte che mi toglierà anche quest’ultima curiosità.
In ogni caso ci tengo, fin d’ora, a ringraziarlo per la compagnia che mi ha fatto (o forse che ci siamo fatti, visto che anche Lui sembra soffrire, come capita a me, di una forma di solitudine inguaribile, aggravata sovente dall’affollamento).
Ci siamo parlati spesso, anzi, sempre, in tutti questi anni. Abbiamo litigato, come succede fra gente che si vuole bene, ma senza tenerci troppo a lungo il broncio. Abbiamo riso e sorriso insieme, ci siamo arrabbiati, indignati, disgustati, commossi. Insieme.
Non credo di averlo mai “adorato”, e forse neppure troppo pregato, almeno nel senso tecnico del termine, ma non certo per arroganza. Magari per incapacità, o piuttosto perchè l’amore o l’amicizia richiedono una formalità d’uguaglianza anche nella consapevolezza dell’assoluta sproporzione.
L’ho ringraziato sovente, e mi pento di averlo fatto troppo poco, perché il grazie fa bene soprattutto a chi lo dice. La dimensione della riconoscenza si smarrisce facilmente lungo il cammino della vita e il ringraziare è una ginnastica che aiuta a mantenere il giusto atteggiamento, oltre a regalare gioia o almeno serenità. Aiuta anche a non trasformare il colloquio in una continua richiesta: neppure l’infinita pazienza di Dio può sopportare un dialogo fatto esclusivamente di domande interessate. Nessuno di noi troverebbe gradevole un interlocutore capace solo di chiedere favori o aiuti.
Soprattutto l’ho sentito spesso accanto a me. Una presenza discreta, mai invadente, mai giudicante, mai condizionante. Compagno di strada e di cammino, ombra invisibile lungo il sentiero, seduto accanto nelle soste solitarie.
A volte è sparito, anche per lunghi periodi, apparentemente ignaro dei miei richiami o delle mie ricerche. Ma forse Lui potrebbe dire lo stesso di me.
La cosa strana è che tutto questo non c’entra molto con la fede. Che rimane un percorso e una decisione di dare fiducia da rinnovare nel quotidiano e si situa quindi sul piano delle scelte concrete. Una cosa seria, che non c’entra nulla con quel che definiamo religione, ma neppure con quella sensazione di compagnia di cui stavo parlando.
Una scelta che si basa su una onesta e continua ricerca.
Per convincersi basta leggere il primo capitolo del vangelo di Giovanni. Le prime parole che l’evangelista fa dire a Gesù sono una semplice domanda: “Che cosa cercate?”  Due soli termini, nel greco originario, ma, che, messi lì, sono le fondamenta di tutto ciò che segue, una base di partenza necessaria per progettare il proprio cammino di vita. Come a dire che, se non sai cosa cercare, vagherai solo a casaccio. Interessante è il “che cosa”, al posto del più naturale “chi cercate”. Prima di incontrare una persona è necessario sapere cosa si vuole, cosa si spera di trovare; prima di cercare “qualcuno”, bisogna cercare “qualcosa”.
La seconda frase di Cristo è “Venite e vedrete” in risposta alla domanda dei discepoli che gli chiedevano dove abitasse. In questo breve brano si nota una quantità incredibile di verbi che indicano  l’azione dei sensi: guardare, vedere, sentire. In particolare “vedere” lo incontriamo nove volte in poche righe, con una ripetitività quasi ossessiva. Per due volte ritorna il verbo “guardare, fissare lo sguardo”, per due volte “sentire”, per tre volte “incontrare”, per quattro “seguire, per due “trovare”.  Un po’ tanto, anche per un amante delle ripetizioni come l’ultimo evangelista, per non avere un preciso significato.
Non quindi un fideismo basato su vaghe emozioni, ma su una seria indagine, su decisioni nate dal “vedere”. Non una scommessa, alla Pascal, ma una convinzione maturata dopo un onesto cercare a cui segue la scelta consapevole di fidarsi.
La fede, dunque, è tutt’altra cosa, ed è settore in cui rimango carente. Al massimo, la mia è una patina, una leggera incrostazione destinata a evaporare per l’attrito con le difficoltà della vita.
Qui non sto parlando, quindi, di fede, neppure di presenza: semplicemente di compagnia. E’ una questione di sensazioni, proprio come è una sensazione, appunto, il “sentirsi” solo o contare su una vicinanza.
Il pensiero moderno, impregnato di cieca fiducia nella razionalità, rifiuta di dar credito alle sensazioni, considerate pericolose, antiscientifiche e, appunto, irrazionali. Ma non tiene conto del fatto che tutte le decisioni più importanti della nostra vita poggiano proprio su questa categoria di “prove” empiriche. L’amicizia, l’amore, la fiducia si basano su questo e sono, a parer mio, tutt’altro che irrazionali. Di certi amici mi fido al cento per cento, più che di me stesso, e non certo dopo un’indagine scientifica dell’affidabilità. In altre parole, con tutto il rispetto per Pitagora, son molto più sicuro della “compagnia” di Dio, della continuazione del dialogo con parenti e amici defunti, del poter contare su certe amicizie indelebili che dei suoi quadrati costruiti sull’ipotenusa o sui cateti.
Mi perdonerà Piergiorgio Odifreddi, persona che stimo e con cui condivido, oltre alla cuneesità, un’adolescenza in seminario, anni di Istituto per Geometri, un Camino di Santiago e la rabbia per uno stato troppo poco laico.
Ma trovo infinitamente triste quel suo voler cancellare ad ogni costo Dio dal cielo, sostituendolo magari con un’equazione a più incognite o con una progressione geometrica.
Un conto è attaccare gli effetti deleteri di ogni religione sulla società, un conto è dichiarare il proprio convinto agnosticismo, un altro è voler cancellare in nome di una pretesa scientificità ogni ipotesi di Dio, dimostrando analoga arroganza e ristrettezza mentale dei peggiori fondamentalisti.
Ogni sofferenza è causata da una perdita, si misura con ciò che abbiamo perduto. Ateo è parola che esprime la più grande delle sofferenze possibili per un uomo: la perdita di Dio, la rinuncia alla speranza o addirittura alla possibilità dell’esistenza di un fine ultimo. Dopo Cristo, ateo è anche la rinuncia alla figura paterna della divinità, il condannarsi a un’eterna condizione di orfani. E, chi l’ha provato, sa bene quanto l’assenza di un padre crei uno spazio vuoto nell’animo che nulla potrà riempire.
Non  lo conosco personalmente, Odifreddi, anche se abbiamo rischiato, qualche anno fa di partecipare insieme a un dibattito sul Camino di Santiago. E’ un peccato non averlo incontrato, avrei avuto proprio voglia di chiedergli, abusando della confidenza permessa dalla comune, terribile esperienza di ex seminaristi: – Ma chi te lo fa fare, Piergiorgio, tu che hai anche esperienza di cammino, di privarti, lungo la strada, della compagnia di Dio? –

 Anni fa, credo nel 2003, in uno dei tanti “quasi libri” mai pubblicati scritti in quegli autunni in cui ancora mi veniva facile metter giù parole su carta, avevo annotato le righe che seguono. Sono andato a ripescarle, visto che parlano, appunto, del piacere della compagnia di Dio. Me ne sono ricordato, per caso, a scritto finito. E’ passato quasi un decennio, ma i miei pensieri sull’argomento non sono cambiati troppo. Il che è quanto meno preoccupante.

C’è un Dio per ogni età.
Quello con Dio è un rapporto coniugale, più che filiale. E’ un tale che ti sta sempre accanto, giorno e notte.
Da giovane era un rapporto pieno, focoso. Amore intenso e grandi scenate, bisticci e riappacificazioni.
Nella prima maturità era un rapporto quasi scontato, distratto dalle mille occupazioni e preoccupazioni della fatica del vivere quotidiano. Era una presenza accettata, un dato di fatto, sovente un’assenza.
Ora che sono un  po’ invecchiato, ho riscoperto il piacere della sua compagnia, la consolazione di una presenza costante e mai invadente.
Siamo due vecchi coniugi che hanno riscoperto la tenerezza.
E ringraziano il cielo, ogni giorno, di essere ancora insieme, ora che le giornate si fanno corte.

Cervasca, 18 settembre 011                     lele