Lettera al Vescovo

caro don Guerrini,
non so se ti ricordi di me, son passati tanti anni da quando eri mio professore di Religione al Liceo e ancor di più da quando ci incrociavamo nei cortili del seminario, tu in veste nera coi bottoni rossi, io ragazzino in fuga da una vocazione suggerita e che tardavo a scoprire non mia.
Ci davamo del tu, abitudine che considero irrevocabile e che quindi mi azzardo a continuare, nonostante la tua carriera e il molto tempo passato dall'ultimo incontro.
Ti scrivo non solo per il piacere di salutarti dopo tanti anni, ma anche e soprattutto perché sento l'esigenza di parlare con un rappresentante della Chiesa, “un'autorità” nel senso del ruolo e della persona, appunto, autorevole. Ti ho conosciuto chierico e giovane prete, ora sei vescovo. Episcopos è parola che potremmo tradurre con il termine attuale “supervisore”. Non nel senso burocratico e antipatico di controllore, ma nel significato più alto e buono di colui che si prende cura, che presta attenzione.
Per la bellezza e importanza di questo tuo mestiere ho pensato di scriverti, io, uomo di poca fede e ancor più scarsa appartenenza.
Lo faccio perché un supervisore deve vedere e sentire, deve rendersi conto e riferire. Deve quindi essere informato, messo al corrente. Anche, e soprattutto, quando c’è qualcosa che non va. Altrimenti rischia di non poter svolgere bene il suo lavoro, che è quello di far da “cinghia di trasmissione” fra una base rassegnata, indifferente, o più abituata a genuflessioni e baci dell’anello che alla critica seria e una gerarchia prigioniera del suo isolamento fisico e mentale
La Chiesa è nata come un'assemblea di uomini e donne legati fra loro dal personalissimo rapporto con Cristo, percorsa e animata da quel vento libero e creativo che chiamiamo “spirito”. Col tempo si è ridotta a un'istituzione prigioniera delle sue stesse regole, delle paure, dei privilegi. E soprattutto schiava della logica molto terrena del potere e dei suoi scambi.
“Assemblea” è l'espressione di una volontà condivisa, un movimento che parte dal basso, dalla moltitudine, e sale verso l'alto, esprimendo “capi”, o meglio, rappresentanti, in cui ognuno si riconosce. E' cosa tutt'altro che facile, come sappiamo noi sfiorati o segnati dalle utopie del 68 e dal loro sfiorire. E' costruzione lenta, richiede pazienza e tenacia.
Ma pare, almeno a guardare la storia, che la fretta non sia una delle prerogative o delle priorità di Dio.
Dare potere all'assemblea non è neppure cosa priva di rischi: costringe al pericoloso equilibrismo fra le derive personalistiche e le lungaggini delle attese obbligate, fra la tentazione di affidarsi a un leader e la necessità di costruire un consenso. Ma, quando funziona, è veramente qualcosa di meraviglioso, un anticipo di quel Regno di Dio che dovremo impegnarci a costruire “qui e ora”.
Mi sembra, invece, che nella chiesa del terzo millennio la direzione e il verso di ogni flusso (informazioni, suggestioni, decisioni) vada esclusivamente dall'alto al basso.
Manca del tutto la capacità e la possibilità di trasmissione in senso opposto, dal basso verso l'alto. E questo è causa di innumerevoli problemi e di una reciproca incomprensione che può giungere alla sensazione di esclusione o di estraneità.
Diciamo che la Chiesa non è brava in democrazia, è rimasta indietro di qualche secolo rispetto alla società civile e così facendo si è chiusa nella sua bolla atemporale e anacronistica. Guarda il mondo da fuori e dall’alto (non rinunciando per questo a dare giudizi su tutto ed emettere diktat), incapace di contatto e di comunione.
Ribaltando il significato che ne dà il diritto canonico, potremmo usare il termine “scomunica”, non più come pena inflitta dall’autorità religiosa agli eretici di turno: al contrario, in questi tempi mi pare che sia proprio la gerarchia che si mette fuori dalla comunione con i cristiani e più in generale con gli uomini e le donne, lei che si affanna a costruire recinti e steccati anziché ponti e strade e rischia di ritrovarsi sola, isolata e inutile.
Una “gerarchia scomunicata”. Sarebbe quasi un ossimoro, se non fosse invece una triste realtà. Quando vedo il cardinal Bertone che va all’ennesima cena con l’ineffabile capo del Governo (precedendo o seguendo di poche ore le minorenni o maggiorenni di turno) per barattare assoluzioni con rassicurazioni e pressioni indebite; quando sento Monsignor Fisichella (l’Angelino Alfano di oltre Tevere) affannarsi a difendere con ragionamenti patetici la comunione del divorziatissimo leader (blaterando di ex-ante e offendendo in un colpo solo la logica, la dignità e tutti i divorziati “comuni” tenuti lontani dal sacramento) non posso non sentirmi assolutamente estraneo e lontano. Oltre che amareggiato e disgustato.
E lo stesso mi è capitato durante il caso Welby o quello di Eluana Englaro e in innumerevoli altre occasioni in cui il giudizio ha prevalso sulla misericordia (esattamente il contrario di quanto raccomanda Giacomo nella sua Lettera).
Io sogno una chiesa, un papa, un vescovo che invece di imporre soluzioni facciano domande, una gerarchia che preferisca l'umiltà del punto interrogativo all'arroganza di quello esclamativo. Sogno una chiesa capace di una grammatica diversa, senza troppi verbi all'imperativo, con preferenza della prima persona plurale rispetto alla seconda: “facciamo” invece di “fate”.
Vorrei una chiesa che ritrovi la cultura, la dignità e la bellezza del silenzio, la capacità di star zitta sulle tantissime questioni estranee al suo messaggio e il coraggio di parlare invece a voce alta sull'unico valore “non negoziabile”: la giustizia e la difesa dell'oppresso e del povero.
Mi piacerebbe una chiesa accogliente e non invadente, attenta a non intromettersi in quel sacro e privatissimo spazio intimo abitato dallo Spirito. Il rapporto del cristiano con Cristo è strettamente personale e non ammette alcuna mediazione: mi piace pensare a un Dio geloso della sua creatura, dei rari istanti di fugace contatto concessi ad entrambi dal dipanarsi della vita. Dio non ha bisogno di mediatori, se mai di testimoni.
Sogno una chiesa che, imitando il suo fondatore, non scivoli mai nel terreno minato delle questioni spicciole, non si faccia impantanare dai moralismi e dalle casistiche e rimandi sempre a un livello più alto e intimo e all'unica, esigente legge dell'amore e della giustizia.
Sogno una chiesa che condivida col Creatore quel rispetto assoluto della libertà che è postulato su cui si basa ogni successivo teorema religioso e ogni rapporto umano.
Per l’evangelista Marco l’unico peccato non perdonabile è quello contro lo Spirito. “Spirito” è il vento che “soffia dove vuole”, imprevedibile e anarchico, è il sacro respiro della libertà. Se Cristo è il principio che accomuna, lo Spirito è quello che rispetta e valorizza le differenze, quello che rende il rapporto individuale, che lo cala nella “mia” vita quotidiana, traducendo l’unica Parola in un messaggio rivolto proprio a me e corrispondente ai miei desideri e alle mie aspettative. Senza lo Spirito, Cristo rimane inavvicinabile e incomprensibile, come ammette lo stesso vangelo.
Il vento non si fa ingabbiare, entra per le fessure, si fa strada fra gli interstizi. Può avere la dolcezza della brezza o la violenza dell’uragano, il calore dello scirocco o la purezza rivitalizzante della tramontana.
L’istituzione Chiesa sembra sovente preoccupata di chiudere bene le finestre, di tappare gli spifferi, di soffocare ogni fermento. Insomma, di tenere lo spirito e il suo pericoloso individualismo libertario fuori dalla casa. Eppure fra i troppi moralisti vaticani, così preoccupati per il laicismo imperante (ma cosa vorrebbero, una repubblica teocratica di stile iraniano?), così pronti a scagliarsi contro il “relativismo” (ma cosa vogliono, l’assolutismo?), così bigotti da prendersela con “l’educazione sessuale e civile nelle scuole” (dovremmo ritornare a cicogne e bimbi sotto il cavolo? e poi…nel pieno dello scandalo pedofilia… mai sentita la storiella della pagliuzza e della trave?); tra tutti questi cacciatori e creatori di peccati veri o presunti nessuno – ma proprio nessuno -sembra preoccuparsi minimamente dell’unica colpa che non potrà essere perdonata.
Ma queste, in fondo, sono questioni che non mi toccano personalmente.
Ho però anch’io, nel mio piccolo, un “peccato” che proprio non riesco a perdonare a questa Chiesa. Ed è di averci “regalato” quest’ultimo governo Berlusconi e di aver fatto di tutto, finora, per tenerlo in piedi. Meglio gli atei devoti, i padani con ampolle, spadoni e maiali al guinzaglio, perfino i vecchi satiri patetici, piuttosto che i “cattolici adulti” come Prodi, rei di pensare con la propria testa e di voler tagliare i privilegi fiscali.
Non posso proprio perdonare la Chiesa per avere sostenuto, sorretto e sdoganato il peggior regime dell’Italia post fascista.
E non è solo una questione politica. E’ una questione “morale”e un pericolo “mortale”.
Il “berlusconismo” è un virus che ha contagiato l’intera società civile, una malattia degenerativa subdola che colpisce gli individui dal di dentro, con l’arma letale delle televisioni e dei giornali spazzatura. Sostituisce l’essere con l’avere e soprattutto con l’apparire, introduce in ogni relazione il peccato mortale della ricerca della convenienza.
Rende ciechi, limita l’orizzonte visivo ai palcoscenici dei talk show, a una realtà virtuale fatta di improbabili modelli di ricchezza facile, di bellezza eterna, di fama mediatica. Distrugge i sogni dei ragazzi svuotandoli di speranza e colori e invecchiandoli in schemi precostituiti e logori. Ruba il futuro ai giovani, incupisce il tramonto degli anziani, avvelena il presente di tutti.
Ha sostituito progressivamente la cultura della solidarietà, della responsabilità e della moralità con quella della ricchezza e del successo. Fini ultimi da raggiungere ad ogni costo, anche violando le regole e calpestando i diritti, usando metodi illegali e violenti. Aggressività, furbizia, forza, competizione smodata sono considerate necessarie per avere “successo” e quindi lecite.
I diritti sono visti in un’ottica personale, diventano strumenti per cancellare i diritti altrui, sancendo la disuguaglianza come giusta e necessaria. La democrazia è ridotta a un teatrino triste e costoso per dare apparenza a decisioni prese in tutt’altri ambiti. Di giustizia e legalità è meglio non parlare, quel che ne rimane è sotto gli occhi di tutti. La politica, ma anche l’organizzazione del lavoro, dello studio, della vita, è strappata al popolo in nome di un populismo becero. L’immagine e il ruolo della donna è degradato e svilito da decenni di televisione di infimo livello, di barzellette indecorose e di esempi personali squallidi e indecenti. Tutto è ridotto a mercato, misurato in termini di dare e avere. Tutto si compra e si vende, senza eccezioni: l’acqua, il suolo, il corpo, il voto, la dignità.
E’ questo l’uomo che “incarna i valori cattolici”?
Da tutto il mondo ci guardano esterrefatti, uniti dalla domanda: ma perché continuate a votarlo, a sopportarlo, a lasciarlo fare?. La risposta sarebbe lunga e investe ognuno di noi. Ma una parte non piccola di responsabilità per quello che è capitato e sta capitando è vostra.
Come vescovo fai parte della CEI, istituzione che spesso mi sembra agli antipodi del messaggio cristiano, più vicina agli intrallazzi e ai bassifondi della politica di bassa lega che alle esigenze di verità e giustizia. Attenta a raccattare spiccioli (nel senso dei miliardi vergognosi dell'otto per mille e delle esenzioni dell’ICI o della futura IMU federalista, entrata nel pacchetto per perdonare gli ultimi peccatucci del Presidente, costo mal contato per noi contribuenti, un miliardo), favori (magari per la scuola privata che sta affossando l'istruzione pubblica) e norme moralistiche (applicate ex-lege anche a chi la pensa in modo diverso) in cambio di consistenti appoggi a chi ci governa.
Si dice che anche il consesso dei vescovi italiani non abbia regole interne degne di un’assemblea democratica, addirittura si parla di documenti finali preparati “prima” della discussione. Non so se queste voci abbiano qualche fondamento. In ogni caso, il risultato è sovente fatto di poche, pochissime parole “di vita eterna” e di molte, moltissime ingerenze indebite in settori di altrui competenza. E sempre espresse con tono cattedratico, moralistico e impositivo.
E' interessante la lettura di Atti 6, quando si narra in diretta la prima crisi relazionale e sociale della nascente comunità, quella del rapporto fra credenti di lingua greca ed ebraica e dell’aiuto alle rispettive vedove. Gli apostoli riuniscono i discepoli, presentano il problema e poi dicono: “Scegliete”. E la decisione proposta è avallata non perché imposta dai “capi”, ma perché “piacque moltissimo all’assemblea”.
La Chiesa dice di essere la stessa, ma evidentemente i sistemi sono cambiati. Quando avrai occasione di partecipare alla Conferenza, proponi il ritorno ai metodi degli apostoli, a quel loro proporre e non imporre, chiedere e non ordinare.
Anche l’ultima, recentissima riunione della CEI – da cui ci si sarebbe aspettato finalmente una parola chiara di condanna per gli ultimi scandali di palazzo e per il degrado morale che ci soffoca – si è chiusa con la solita alchimia di parole pesate col bilancino del farmacista, un colpo al cerchio e uno alla botte, addirittura un velato attacco ai magistrati per l’eccesso di furia indagatrice. Insomma, niente più di una tiratina d’orecchie, con la ridicola richiesta di “sobrietà” rivolta a un uomo che incarna l’esatto contrario del termine. E il commento del premier alle velate accuse (“Vescovi ingrati!” la dice lunga su come il rapporto stato-chiesa sia improntato a un reciproco scambio di favori (voti contro soldi, appoggio contro norme).
L’imprenditore Berlusconi, abituato a comprare tutto, voti, donne, televisioni, parlamentari e prelati, ha “investito” nei rapporti con l’istituzione vaticana e ora si aspetta di essere ripagato. A sentire le parole di Bagnasco (non si cambia cavallo in corsa), a leggere l’Osservatore romano (Il PDL è il partito che meglio incarna i valori cristiani), a giudicare dall’attivismo di Bertone nel mediare con l’UDC nei momenti della crisi parlamentare dando un sostegno determinante al traballante esecutivo, purtroppo per noi, sembra aver fatto bene i suoi calcoli.
Caro don Guerrini, non so se leggerai questa lettera, se in qualche modo ti arriverà.
Nel caso vorrei che la prendessi “per il verso giusto”. Le parole scritte non ci trasmettono le espressioni del volto e il tono di voce, non lasciano intravedere il sorriso che può attenuare la durezza dei termini. Le frasi pesanti che ho dovuto usare non sono certo rivolte a te (ti ricordo con grande simpatia e riconoscenza e oltretutto sarebbe stupido, come uno che se la prenda con un impiegato Fiat per l’arroganza di Marchionne o con me per l’incompetenza della Gelmini); se mai al Consiglio di Amministrazione, a quei vertici lontani e irraggiungibili a cui “deve” giungere l’eco dello sconcerto e della stanchezza di noi piccoli azionisti senza diritto di voto in assemblea.
E non sono motivate da malanimo, ma dalla volontà di “non-indifferenza”.
E dal bisogno.
Cristo, prima di moltiplicare pani e pesci aveva provato compassione per la folla che l'aveva seguito in un luogo lontano attirata dalla bellezza della Parola, dimentica perfino della logica ferrea dello stomaco vuoto. La compassione (che è un sentimento che invecchiando apprezzo sempre di più) nasceva dal fatto che la vedeva disorientata, un gregge senza pastore, alla ricerca di qualcosa che non riusciva a trovare, che nessuno era capace di dargli.
Mai come ora siamo tutti (io per primo) disorientati, spaesati, impauriti.
Siamo tutti orfani di maestri illuminati, di guide competenti, di padri autorevoli.
Siamo mendicanti di verità.
Siamo esuli che hanno perso la patria, marinai senza stella polare.
Abbiamo bisogno, per prima cosa, di gesti di accoglienza incondizionata. Di un posto dove sentirsi a casa. Di un padre che ci aspetti ansioso mettendo il lume fuori della finestra, senza rinfacciarci colpe e ingratitudini.. Di compagni di viaggio generosi. Di spalle robuste a cui appoggiarsi.
Mai come in questo millennio materialista e gretto, mercantilista e avido abbiamo bisogno di parole di vita eterna, di sguardi lunghi e amorevoli, di qualcuno capace di ridarci quel senso che manca alle nostre giornate.
Abbiamo bisogno di una chiesa con la “c” minuscola, capace di ritornare piccolo gregge, di essere smarrita con noi smarriti, incerta con noi dubbiosi, spaventata con noi paurosi, stanca con noi affaticati. Perfino disperata con noi che stiamo perdendo per strada tutte le speranze.
Di questo abbiamo bisogno.
Anche per questo ti ho scritto.

Un carissimo saluto,
lele

scritta nel gennaio 2011, pubblicata sul Granello di febbraio, con qualche piccolo adattamento fatto dalla redazione non solo col mio consenso, ma su mia richiesta. Questa è la versione grezza.