Crocefissi e dintorni

“Dos cafè con leche” chiedo al barista mentre poso per terra lo zaino e prendo il giornale dal bancone. “La voz de la Galizia”, uno dei diversi quotidiani locali con articoli in spagnolo e in gallego. Notizie di paese, feste, lutti, piccoli incidenti.
Vado alle ultime pagine in cerca del meteo (piove da giorni) e vedo l’articolo con tanto di foto: lui, Berlusconi, che stringe in mano un enorme crocefisso. Il titolo dice qualcosa sul fatto che il governo italiano protesta contro l’idea di toglierlo dai luoghi pubblici. Poso immediatamente il foglio, maledicendo questo mondo globalizzato in cui non c’è distanza sufficiente a proteggerti dalle visioni oscene e dalle notizie in grado di farti andare per traverso la colazione.
Non intendo parlare del triangolo Berlusconi-lega-chiesa, né entrare nel merito della questione “crocefisso sì-crocefisso no. Neppure commentare il fatto. Si commenta da solo, l’hanno commentato in tanti, da tutti i punti di vista. Accanto alle parole accorate dei don Mazzi e dei don Ciotti, che ci ricordano che i crocefissi da difendere non sono certo quelli appesi ai muri dei locali pubblici, le solite idiozie bipartisan dei vari esponenti politici.
Da sinistra, Bersani definisce il crocefisso un simbolo “inoffensivo” dimostrando che magari è bravo a destreggiarsi nei giochetti della politica e sarà bravo (lo auguro di cuore) a resuscitare il PD, ma di certo non capisce molto di teologia e neppure di storia, se non coglie l’immensa forza rivoluzionaria di quella morte. Dall’altra sponda, la Gelmini gli fa il coro, definendolo una “tradizione”. Forse non sa che l’Uomo appeso a quel legno si è scagliato proprio contro la tradizione: “voi annullate la Parola di Dio in nome di tradizioni degli uomini”, ed è stato messo in quella posizione scomoda dagli intransigenti guardiani della tradizione religiosa del tempo. E dopo duemila anni – mi verrebbe da commentare – sembra proprio che la razza di chi è disposto a crocifiggere il prossimo in nome della sua idea di Dio non sia ancora estinta.
Non intendo entrare, quindi, nel merito della questione.
Fra l’altro, mi pare evidente che si tratti del solito tentativo di creare un diversivo da parte del Presidente imbonitore bisognoso di distrarre l’opinione pubblica dai suoi guai giudiziari e da scelte politiche indifendibili. Il solito vecchio trucco da prestigiatore imbolsito o da taccheggiatore da fiera paesana. Attirare l’attenzione sulla mano sinistra, mentre la destra ti sfila il portafogli o cambia le carte sul tavolo. Noi italiani siamo bravissimi a cascare come polli in queste trappole, spinti dall’innata voglia di discussione, dal piacere di contrapporsi in schieramenti antitetici – Coppi e Bartali, Roma o Lazio, destra o sinistra, cattolici e laici, cristiani e musulmani -.
La raccolta di firme della Lega sfrutta proprio questa voglia di appartenenza e di distinzione, tipica di chi è talmente insicuro dei propri valori da doversi aggrappare con forza alla propria supposta identità collettiva.
E mentre la gente si perde in infinite discussioni su un pezzo di gesso o di legno, il governo ci scippa l’acqua, regalandola alle multinazionali, introduce il processo breve, per graziare il Presidente e tutti quelli che, come lui, hanno soldi a sufficienza per tirare alla lunga i procedimenti giudiziari, progetta ponti demenziali e centrali nucleari. Corrotti, corruttori, mafiosi, falsificatori di bilanci e delinquenti vari ringraziano.
Mi soffermo, piuttosto, su un paio di considerazioni più marginali e personali.
Appartengo a una generazione insofferente dei simboli, figlia della cultura un po’ iconoclasta del dopo sessantotto. Ma forse non è neppure il caso di tirare in ballo giustificazioni storiche o antropologiche. Forse non è tanto un fatto collettivo, ma mio personale, legato a cromosomi anarchici e a una vena di intolleranza irriducibile per divise, bandiere, retoriche, riti e simboli vari.
Trovo che la riduzione a simbolo, così come la trasformazione di un evento in rito, sia il sistema migliore per imbalsamarlo e renderlo inoffensivo.
Una rivoluzione si annulla facendola diventare “tradizione”.
Così le commemorazioni sempre più stanche e retoriche di una Resistenza che si vuole relegare nei libri di storia, il cartello “La legge è uguale per tutti” appeso in tribunali dove si condannano innocenti e si assolvono i potenti, le bandiere rosse nei regimi totalitari, la faccia del Che sulla cover dei telefonini.
Così anche il crocifisso sui muri pubblici.
“Povero Cristo”, mi verrebbe da dire, ridotto a gesso e legno, usato come strumento di ricerca del consenso popolare da atei devoti, trasformato in pezzo di folclore, assieme alle renne di Babbo Natale e alla festa della mamma. E quel che è peggio, usato come segno di distinzione e di appartenenza, per approfondire il solco fra noi, i cristiani, cioè i buoni e “loro”, gli altri, i cattivi, quelli un po’ primitivi, prigionieri del loro medioevo di fanatismi e usanze tribali.
Non amo i simboli, quindi, e non mi è mai piaciuto il crocefisso appeso ai muri, così come non vado in estasi davanti al tricolore o non fremo d’orgoglio per le note del nostro penoso inno nazionale.
Sono insofferente davanti a queste manifestazioni pubbliche di scelte che mi pare appartengano a una sfera che non è privata – tutt’altro – ma è comunque intima. Non è con questi sistemi un po’ pacchiani, santini e statue di gesso, che si può e si deve rendere pubblica la propria fede o il proprio agire secondo convinzioni morali.
Non è con gli oggetti (e neppure solo con le parole) che si può testimoniare l’adesione al messaggio di Cristo. Basta leggere i Vangeli per rendersi conto che la fede è un fare, un operare, non è nel mondo delle parole, tanto meno delle cose. “Fare le opere di Dio” è frase che si ritrova spesso in Giovanni, e che lo stesso Cristo adotta come linea guida per il suo agire.
C’è anche un’altra motivazione che sta dietro la mia personale scarsa simpatia per i crocefissi esposti. Mi sembrano la materializzazione di una brutta tendenza della chiesa a mettere al centro di tutto la sofferenza. La retorica della sofferenza o addirittura l’esaltazione del dolore, della mortificazione. Il male che ti fa bene, il bene che ti viene dal male, la sofferenza che ti purifica, il perdono che arriva solo passando attraverso l’inevitabile espiazione. Tua, o – visto che la capacità di fare il male è molto maggiore di quella di soffrire -, con l’aiuto del Cristo che si prende sulle spalle il peso delle nostre innumerevoli colpe.
Povero Cristo! mi viene da ripetere.
“Liberaci dal male” ci ha insegnato Gesù a chiedere al Padre nell’unica preghiera riportata dai Vangeli. E dacci ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno (il pane quotidiano), fa venire in fretta quel Regno di pace, salute, amore, gioia, libertà. Perdonaci le colpe perché siamo capaci di perdonarci a vicenda. Una serie di immagini che non ispirano certo tristezza, che sanno di pienezza di vita.
In Marco, Cristo dà la sua definizione di Dio facendo vedere ciechi che ritornano a vedere, storpi che riprendono a camminare, prigionieri che riscoprono la gioia della libertà. In Giovanni, l’unico dei quattro testi in cui il protagonista si autodefinisce più volte, Cristo dice di essere vita, luce, strada, verità. Si paragona perfino a una porta d’accesso, a un pastore e a una pianta di vite. Mai si identifica con morte, dolore, sofferenza.
E’ vero che la nostra religione si fonda sul terribile fallimento della passione. Ma non finisce lì, altrimenti sarebbe solo una delle tante parentesi tragiche di cui è piena storia e quotidianità
Perché dobbiamo ostinarci a raffigurare quell’Uomo solo nell’istante della morte? Quando ricordiamo una persona cara scomparsa la rievochiamo nei momenti sereni, nei giorni della vita piena e della gioia, non certo nel rantolo dell’agonia. Conserviamo fotografie di feste, ricorrenze, sorrisi, non fissiamo certo il ricordo di malattie o eventi tragici. Perché mai dovremo tappezzare le nostre stanze con le immagini di quell’Uomo torturato? Non sarebbe preferibile ascoltare il suo stesso invito e andare ad aspettarlo in Galilea?
In Marco e Matteo, Cristo risorto dà appuntamento ai suoi amici nella loro terra, là dove era nata tutta la loro folle avventura. Ai tempi dei miracoli, delle folle festanti, del “regno di Dio è qui”. Un ritorno alla gioia degli inizi, sia pure dopo la tempesta, le paure, i tradimenti della passione.
Se la Chiesa crede che “Cristo è veramente risorto” non vedo il motivo di continuare a ricordarlo solo nell’istante della sofferenza e della morte. Se Dio è luce non capisco perché ci si debba affannare tanto a inseguire solo i coni d’ombra.

Cervasca, 19 novembre 09