L’incapacità  di indignarsi

Qual è la caratteristica più sconvolgente dell’Italia d’oggi?
Se dovessi rispondere a questa domanda senza pensarci troppo, direi senz’altro: l’incapacità di indignarsi.
Una sorta di rassegnato torpore, la sconcertante indifferenza con cui ci lasciamo scivolare addosso situazioni, frasi, gesti, prese di posizione, atteggiamenti che hanno dell’incredibile.
E lo stesso svagato disinteresse, la stessa ebete disattenzione sembra coinvolgerci sia come cittadini, nei confronti di uno stato che scivola ogni giorno verso il più bieco totalitarismo, sia come credenti, nei confronti di una Chiesa sempre più chiusa in se stessa, sorda al mondo e lontana da Cristo…
…Un’analogia, una sorta di convergenza che non mi sembra casuale.
“Incapacità di indignarsi”. Dal versante della politica, è l’ultimo stadio della metamorfosi fra una democrazia in agonia e una dittatura di fatto. Ogni totalitarismo è preceduto e reso possibile da questo atteggiamento di passiva complicità.
La madre di ogni dittatura è, secondo me, l’indifferenza.
Per il credente nei confronti della sua Chiesa, perdere la capacità di critica e di indignazione è peccato grave e atteggiamento del tutto antievangelico. Se non avesse, almeno metaforicamente, preso a calci in culo scribi e farisei (la “chiesa” di allora), Cristo non sarebbe morto in croce. Se non avesse avuto e conservato un’enorme capacità di indignarsi e di esprimere con fermezza e gesti forti la sua indignazione verso il potere religioso del tempo, avrebbe evitato a se stesso e ai suoi seguaci futuri un sacco di guai. Ma non sarebbe stato Cristo. Sarebbe stato uno dei tanti falsi profeti, amplificatori interessati di luoghi comuni, di quelli che abbondavano allora sulle strade di Galilea e intasano oggi convegni e dibattiti, parlamenti e televisioni. Uno dei troppi profeti inutili, spacciatori di parole vuote e venditori di illusioni pericolose.
Dal versante del cittadino i motivi di indignazione, di questi tempi, non mancano. Non vale neppure più la pena elencarli.
I responsabili dei massacri di Genova? Assolti e promossi. Un parlamento pieno di giacche, cravatte e camicie stirate e pulite, e di fedine penali sporche. Una legge uguale per tutti tranne che per le alte cariche dello stato. Un Presidente che ha l’arroganza di pretendere non solo più l’impunità di fatto, ma vuole essere “per legge” al riparo dalla legge e un altro Presidente che firma e avalla questa aberrazione giuridica.
E poi la Costituzione calpestata, la scuola demolita, la coppia Gelmini-Brunetta con Tremonti sullo sfondo, l’Iraq, l’acqua privatizzata, il nucleare, le televisioni, la finanza, i giornali, la censura…Solo l’elenco delle malattie sembra toglierci ogni speranza di guarigione.
Meglio scollinare sull’altro versante, quello dei rapporti fra il credente e la Chiesa.
Ma anche qui non sembra andare molto meglio.
Se vuole conservare un briciolo della capacità di indignazione del Cristo, il cristiano di oggi non può permettersi di tacere di fronte a una chiesa (e uso qui la parola nel significato comune, ma profondamente errato e limitativo, di gerarchia ecclesiastica, la “vera” Chiesa, per fortuna, è da tutt’altra parte) che sembra comportarsi sistematicamente in modo contrario allo stile di vita e alle indicazioni del fondatore.
Cristo ha parlato pochissimo, almeno secondo i sinottici, vangeli di fatti più che di parole. E mai di piccole questioni moralistiche. Tirato in ballo da avversari malevoli, ha sempre portato il discorso dal particolare al generale, dal fatto all’intenzione, dall’esteriorità all’interiorità. L’esatto contrario di questi porporati che sembrano interessarsi esclusivamente di preservativi e procreazione assistita, che discutono all’infinito di tutto e di tutti, che affogano l’unica Parola in un diluvio di parole, che pretendono di dettare legge in ogni campo, dall’astronomia alla medicina, dal diritto all’economia.
Cristo si è sempre dimostrato tollerante, gentile, accogliente con le singole persone, (aumentando questa disposizione positiva in modo inversamente proporzionale alla posizione sociale, all’importanza e alla “purezza” religiosa dell’interlocutore) e nel contempo è sempre stato intransigente e duro, al limite dell’insulto e della violenza, nei confronti con le istituzioni, soprattutto religiose. La Chiesa, all’opposto, abbraccia dittatori sanguinari, fa affari con mafiosi e malviventi mentre si comporta con crudeltà raffinata con persone già provate da dolori insopportabili e situazioni durissime. I casi di Welby, di Eluana, sono davanti agli occhi di tutti. Ma non dobbiamo dimenticare le migliaia di altri poveretti esclusi anche dall’attenzione dei media e condannati a torture infinite da chi si dice rappresentante di colui che definiva il suo giogo leggero e soave. Dell’uomo che è scoppiato in pianto davanti alla tomba dell’amico Lazzaro, che abbracciava lebbrosi e guariva ciechi. Di chi, per definire il suo Dio, indicava zoppi che camminano, prigionieri liberati e muti che ritrovano la parola.
Cristo si autodefinisce “la vita” e sembra avere un rapporto speciale con questa parola. Parola piena, pesante, ricca di significati, di promesse, di colori. Un termine che racchiude in sé il passato, il presente e il futuro, la perseveranza e la potenzialità, la crescita e la decrescita. Che abbraccia tutto il ciclo delle stagioni, personali e collettive, del singolo e della storia. E nasconde addirittura una speranza di eternità.
La Chiesa, invece, sembra svuotarla di significato. Sembra interessarsi solo al prima e al dopo, ai due momenti estremi, al guizzo dello spermatozoo e al rantolo dell’agonizzante. Quello che capita in mezzo, fra questo passato remoto e quel futuro anteriore, la somma di giorni, mesi, anni, di sorrisi, fatiche, speranze, amori e dolori sembra interessarla ben poco. Con la pignoleria del cronometrista e il distacco del ragioniere, pretende di spiegarci quando inizia di preciso e qual è l’esatto secondo in cui può finalmente dirsi finita.
Che tristezza!
E le contraddizioni non finiscono qui.
Un quarto del patrimonio immobiliare del Lazio di proprietà, diretta o indiretta dei seguaci di colui che non aveva una pietra su cui posare il capo. Esenzioni fiscali vergognose. La truffa dell’otto per mille che triplica di fatto il gettito per la Chiesa, dribblando le indicazioni del contribuente. Una banca, lo Ior, che è stata per decenni l’epicentro di speculazioni, truffe e ogni genere di oscuri episodi.
Il tutto da parte di chi si ritiene interprete di colui che ha detto chiaramente: “Guai a voi, ricchi” e ha spiegato che Dio non accetta personale part time, a mezzo servizio con “mammona”, il denaro, il potere.
E, buon ultimo, lo sgambetto cardinalizio al traballante governo Prodi, che ci ha regalato questo Berlusconi quater, replica di un brutto telefilm già visto e prologo della dittatura prossima ventura. “Non sopportano i cattolici adulti”, si è lamentato l’ex presidente del consiglio. Ed è solo l’ultima delle innumerevoli invasioni di campo nel regno della politica spicciola di chi dovrebbe ricordare che il “date a Cesare” fa divieto assoluto di mescolare il contingente col soprannaturale per fini di pura convenienza.
Non possiamo permetterci, in questo cupo inizio di terzo millennio, né come cittadini, né come cristiani, di perdere la sacrosanta e cristianissima capacità di indignarci. Non ci sono concesse distrazioni, non possiamo chiamarci fuori, nasconderci dietro indifferenza o obbedienza. Non sono “fatti loro”. Del papa, dei cardinali, del clero. Sono “fatti nostri”. Il “ciò che tutti legherete sarà legato” che segue nel testo di Matteo il ben più pubblicizzato “ciò che tu (Pietro) legherai…” ci inchioda al dovere di far sentire la nostra voce, di gridare forte l’indignazione. Come cittadini, certo, ma ancor più come cristiani.
Il Papa, di recente, ha parlato, come suo solito, di contraccezione. E ha finito il discorso con una constatazione sconsolata: “Ma su questo punto, i cattolici non ci seguono”.
Mi è venuta in mente la parabola che noi chiamiamo del “buon” pastore, con la solita ansia di spalmare miele su ogni dettaglio riguardante il Cristo, e che sarebbe meglio definire invece del “vero” pastore. L’associazione di idee è dovuta alla mia esperienza di dodici anni con pecore e capre, ha quindi una motivazione zootecnica più che esegetica. Giovanni dice del vero pastore che “conosce le sue pecore e le pecore conoscono la sua voce”. Per questo lo seguono. “Conoscere” è verbo importante, che ha profondità e richiede reciprocità. Sottintende fiducia, rapporto continuativo, scambio. Mi ha fatto pensare che sono le pecore che legittimano il pastore e non il contrario. Un pastore che non riesce a farsi seguire dal gregge (e io, devo confessare, appartenevo alla categoria) è bocciato, non è un “vero” pastore. E chi non supera quest’esame, sempre secondo Giovanni, “è un ladro o un brigante”.
Qualcuno dovrà pur dirglielo, a chi siede sul trono di Pietro ( che, peraltro, in vita sua usava certo sedili più frugali) che provi, magari, a cambiar discorso e tono di voce. Che scenda dalla cattedra, si sforzi di essere meno professore e più pastore. Provi a parlare di vita piuttosto che di morte, di possibilità invece che di doveri, di opportunità invece che di peccati. Che molli quel fazzoletto di terra che lo ancora al diritto internazionale e lo trasforma in un qualsiasi capo di stato, per di più troppo invadente e loquace.
Che si ricordi che ogni volta che apre bocca, lui, vicario di Cristo, dovrebbe portare nel nostro tempo un alito di quel vento libero, di quello spirito che soffia dove vuole, di quella “buona notizia” che noi, pecore disperse, ancora attendiamo.

Scritto il 18 novembre 2008.