Skyline

Non amo particolarmente l’invadenza della lingua inglese nel nostro lessico quotidiano (punta dell’iceberg di ben altre colonizzazioni culturali che ci arrivano da oltre oceano), ma trovo comunque azzeccato e difficilmente sostituibile il termine skyline. Nel nostro repertorio nazionale di vocaboli non esiste qualcosa che condensi in una parola l’impatto visivo del profilo di una città che si staglia contro l’azzurro del cielo.
Sky-line è il contorno di alberi, montagne, edifici disegnato sullo sfondo sempre variabile dell’orizzonte, una sorta di linea di confine, un tratto di china capace di separare la terra dall’aria.
Per chi arriva a Cuneo dal viadotto Soleri il quadro è molto gradevole. Tetti rossi, campanili, cupole, l’armonia delle grandi arcate, colori caldi con lo sfondo maestoso della Bisalta. Negli ultimi dieci anni mi sono goduto quasi ogni giorno questo spettacolo venendo a lavorare in città con la bicicletta da Cervasca. Una piacevole ouverture di giornata, un assaggio di pace e bellezza prima di immergersi nel mare agitato della scuola.
Il colpo d’occhio della parte nuova della città è invece particolarmente deprimente, soprattutto dopo l’apertura della est-ovest. Guardrail maggiorati, rigorosamente ad altezza d’uomo – una sorta di gigantesco paraocchi studiato per impedire la visuale e concentrare lo sguardo sull’asfalto o sul paraurti dell’auto che precede -, rotonde con circonferenza da far invidia al circolo polare con illuminazione da stadio, rive e banchine coltivate a erbacce infestanti, gallerie sinuose, svincoli, sottopassi. E come sfondo l’agghiacciante mole del Palazzo degli Uffici finanziari.
Un’immagine capace di rovinare l’umore anche al più ottimista e spensierato degli uomini, figuriamoci a chi, come me, srotola le sue giornate sul filo di esasperazione e depressioni.
Sono tardo nelle reazioni e nelle emozioni. Non mi sono reso conto dell’impatto visivo e culturale della nuova infrastruttura fino al momento in cui l’ho percorsa per la prima volta, a inaugurazione avvenuta. Non credo, però, di essere il solo ad essere stato preso alla sprovvista dalla sciatteria e dall’assurdità di questa “grande opera” lungamente aspettata, promessa e desiderata. Un’attesa di anni che si è trasformata in una feroce delusione.
L’antipasto è un cartello rotondo: divieto a pedoni, cicli e trattori. Come a dire: attenti, questo non è un normale viadotto che collega l’altipiano con una frazione. E’ un pezzo di autostrada nel centro cittadino, una ferita nel tessuto urbanistico, un ponte che divide invece di unire. Dopo la consueta rotonda con raggio chilometrico sovrastata da un traliccio che spande luci gialle si entra in una galleria con doppia curva che sembra studiata per i test d’aderenza dei pneumatici. – Non sarebbe poi tanto sbagliato estendere l’alcoltest anche a tecnici e progettisti – pensavo con la parte rettiliana dell’encefalo, mentre la frazione cosciente dei neuroni era impegnata a seguire le bizzarre direttrici di marcia.
Un’altra megarotonda circondata da foreste di farinèt (Chenopodium album, temibile erbaccia infestante) introduce a due viadotti di larghezza spropositata in cui non si sono voluti trovare i pochi centimetri per far passare gente a piedi o in bici. (Colpevole distrazione dei nostri amministratori, la solita politica miope e arrogante degli enti che si occupano di viabilità, o la prospettiva allettante di futuri investimenti e stanziamenti per avveniristiche ciclabili appese?).
“Bisogna tenere le auto fuori dalla città” continuano a ripetere da tempo le autorità di ogni livello. E per questo nobile scopo estendono a dismisura le zone blu e affittano a prezzi esosi fette di suolo pubblico spartendosi il ricavato con ditte private. Salvo poi portarle, le automobili, nel cuore del tessuto urbano e realizzare gigantesche e costosissime infrastrutture a loro esclusivo uso. “Dimenticandosi” di chi si ostina a voler andare a scuola o al lavoro a piedi o in bici.
Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, in un recente reportage a puntate su Repubblica, dopo aver fatto l’elogio delle nostre valli (“è strepitosa la valle Stura”, scrive) così si esprime sulla qualità estetica della nuova opera: “sulla tangenziale di Cuneo mi invade un senso di incommensurabile decadenza – anzi di sfacelo”.
Credo non occorrano altre parole per commentare il manufatto. Bisognerebbe farle incidere in una targhetta da apporre sull’opera a memoria dei posteri. Ieri, il medesimo giornale ospitava un verboso saggio di Umberto Eco sul concetto di brutto. Il luminare poteva risparmiarsi tanta fatica e tanto sfoggio di citazioni: basta alzare lo sguardo oltre il guardrail. Non abbiamo bisogno di definizioni filosofiche o metafisiche: il brutto è qui e ci circonda da tutti i lati.
Eppure ciò che registriamo inconsciamente con gli occhi determina la qualità delle nostre giornate, lo stato del nostro umore. Sporcizia, rumore, asfalto, cemento, le pareti levigate delle gallerie, erbacce, luci violente si stratificano nel cervello e colorano di grigio le giornate regalandoci depressioni e angoscia. Dovremmo difendere con ferocia quel poco di bello che ci resta nel circondario, impedire che venga svenduto a pezzi in nome del profitto e della velocità.
Ma non è solo una questione di estetica e di umore. Il problema vero è che, nonostante le tanto sbandierate politiche ecologiste e le supposte preoccupazioni ambientali, continuiamo a costruire città a misura di automobile. E le automobili divorano spazio, più ancora che benzina. Sono ingombranti, riempiono ogni buco possibile. Intasano le arterie del traffico più di quanto faccia il cattivo colesterolo con i nostri vasi sanguigni. Se progettiamo le città in base alle loro esigenze le vedremo crescere a dismisura, copriremo di cemento e asfalto tutti i terreni disponibili, continueremo a ferire il territorio, a tagliarlo a fette, a scavare tortuosi cunicoli sotterranei e a intitolare ponti di dubbia utilità e di costo elevatissimo a politici che incarnano bene lo spirito dell’opera.
La politica – parola preziosa, anche se oggi vituperata – si può fare con parole predicate e principi enunciati, oppure con i numeri e i fatti. Questi ultimi, purtroppo – solidi, inoppugnabili, concreti – sono sovente in contraddizione con le prime –volatili, leggere e, tutto sommato, inoffensive o, addirittura, consolatorie.
E così si possono vendere promesse di prati fioriti e città sostenibili e raddoppiare poi, nei fatti, cemento e cubature edificabili.
Definirsi democratici e di sinistra e imporre la TAV a manganellate.
Dimostrarsi tanto preoccupati per la salute dei nostri polmoni attaccati dalle cattivissime polveri sottili – tanto da costringerci a buttare l’auto quasi nuova -e ingozzare le fornaci dei cementifici con quantità sempre maggiori di combustibile da rifiuti.
Predicare di città a misura di pedone e ciclista e portare l’autostrada nel centro.
Pedalo al mattino col sole che sorge, disco rosso a spargere pennellate di colore sulle nuvole nere. Ho superato senza voltarmi il Carle e la rotonda. Il profilo della Cuneo vecchia si staglia sulla prima neve che imbianca la Bisalta. –E’ bella Cuneo – mi viene da pensare, con la speranza di non essere presto obbligato a coniugare il verbo al passato.

Pubblicato su Viveremeglio del novembre 07 col titolo “Megarotonde, cemento, gallerie: la ferita urbana della est-ovest”