Un avverbio di due lettere

– Ma tu credi in Dio? –
– Bella domanda! – rispondo, ma è solo un modo per prendere tempo, per concedermi un attimo di dilazione davanti all’irrevocabilità del quesito. Mi rendo subito conto che non posso svicolare, cavarmela con una battuta o con un “sì, ma…”, con la congiunzione messa subito lì, dopo la virgola, a negare l’avverbio. Come faccio di solito: “sì, ma non al Dio del Vaticano…sì, ma non al Dio delle religioni…” Scappatoie dettate dalla vigliaccheria o dalla voglia di tagliar corto…
Il credere non sopporta la piccolezza di questi trucchi verbali, l’affermazione immediatamente annullata dalla condizione. E’ verbo da coniugare solo all’indicativo, mai al condizionale e, tanto meno, all’imperativo. Neppure esortativo. E’ vocabolo da colori pieni, da bianco o nero, non contiene la scala dei grigi, non ammette sfumature.
Gli occhi della mia amica mi inchiodano all’obbligo dell’onestà nella risposta. Sono occhi di donna che ha attraversato l’assurdità del dolore, mi interrogano loro, non le labbra che si sono appena mosse in un sussurro impercettibile. Mi scrutano dentro, senza lasciarmi scampo nel mondo falso delle parole. E’ domanda non verbale, piuttosto visiva. Sento che non è mossa da curiosità, neppure dal desiderio intellettuale di discussione, dalla voglia di rimestare filosofie tipica di noi cinquantenni spaesati.
– Se credere è sinonimo di pensare, ritenere, sapere, non so darti risposta – le dico, dopo una lunga parentesi di silenzio. – Non ne ho la più pallida idea. Non so se esista un Dio creatore o solo un animale uomo capace di crearsi un’immagine di Dio nell’illusione di trovar scampo alla certezza spietata della fine. La parola “Dio” –e questo me l’ha insegnato Brassens – la faccio sempre seguire da una parentesi dubitativa inscindibile: “s’il esiste”
Se invece per te credere vuol dire “aver fede”, sai benissimo che mi rifugio nella definizione di “uomo di poca fede”, che mi protegge dagli opposti estremismi del fideismo cieco e del razionalismo ottuso.
Checov ha detto che “tra le affermazioni “Dio esiste” e “Dio non esiste” si estende tutto un enorme spazio che con grande fatica il vero saggio percorre”. Non sono saggio, né vero, nè finto, ma mi ritrovo anch’io a gironzolare senza meta in questa terra di nessuno.
Trovo entrambe le affermazioni arroganti e saccenti, come chi si ostina a voler tranciare giudizi su argomenti che non conosce. Farle proprie significa scambiare pareri con certezze, contrabbandare per verità quelle che sono solo nostre opinioni. In questo c’è simmetria di presunzione e di disonestà nella fede ostentate da tutte le gerarchie religiose delle innumerevoli confessioni (che si spartiscono il nome di Dio, voraci e disgustose come parenti che litigano per gli spiccioli dell’eredità), e l’ignoranza colta degli atei che cancellano Dio in nome della logica o della filosofia, come fosse la variabile di un’equazione.
Meglio, mille volte meglio, continuare a vagare in questa terra vuota, stretta fra i due oceani delle opposte certezze. Meglio ammettere l’impossibilità umana di afferrare il divino, di comprendere, capire il mistero.
Sia capire che comprendere sono verbi di contenimento, fanno pensare all’assurda pretesa di far entrare l’infinito nelle nostre ristrette testoline. Basta alzarle, queste nostre teste, a guardare l’immensità dell’universo coi suoi miliardi di anni luce a rischiararci le notti e indicarci la rotta, per sorridere dell’idea di “contenere” nella manciata di decimetri cubi dei nostri cervelli l’essenza di un eventuale creatore.
Preferisco l’onestà di Giovanni, l’evangelista, che afferma chiaramente che Dio nessuno lo conosce, piuttosto che l’impudenza dei suoi mille successori che pretendono ogni giorno di spiegarcene in dettaglio voleri, desideri e caratteristiche. Che ci dicono come, se e quando vivere, vestirci, far l’amore, perfino morire, facendosi interpreti in terra della volontà di Colui che risiede nel più alto dei cieli.
Ma il verbo credere ha anche un terzo significato.
E’ una di quelle tante parole “plastiche” che abbiamo stiracchiato e adattato, plasmato alle nostre esigenze fino a far loro assumere forme e contorni diversi.
Credere può significare affidarsi, avere fiducia, fidarsi.
E in questo senso, finalmente, posso rispondere alla tua domanda con un sì.
Senza condizioni, perché la fiducia è parola che non ammette il condizionale né il dubitativo. Non sopporta i se e i ma, neppure i tentennamenti.
Si dà o non si dà. Punto.
E io ho deciso di darla.
Perché, secondo me, la fede non è una condizione, è una decisione. Non è come avere i capelli biondi o gli occhi azzurri, un qualcosa che uno si ritrova per nascita, genetica, cultura. Non è una qualifica, è una libera scelta.
Basata su una giusta miscela di ragione e sentimento, come tutte le nostre scelte “giuste”.
E non è una condizione statica, un luogo raggiunto, piuttosto un viaggio, una meta. Un qualcosa che si realizza strada facendo, su percorsi spesso imprevisti, proprio come un viaggio. O un racconto, un libro. Non la si può progettare, semplicemente la si vive.
La fede è decisione che obbliga alla quotidianità, come la fiducia. Vive nell’ordinario.
E la fiducia si decide di darla a una persona, dopo averla incontrata e conosciuta.
Dopo averla guardata bene negli occhi, proprio come stiamo facendo adesso noi due…-
Mi sorride; lo sguardo serio dell’amica che ha accolto con attenzione le mie parole si scioglie finalmente in un’espressione divertita e nello stesso tempo perplessa: -Allora tu hai incontrato Dio? – mi dice, con un tono a mezzo fra la curiosità e la bonaria presa in giro. Parole che riportano il discorso nei consueti canali di disincanto e ironia che usiamo per proteggere quel continente nascosto della nostra anima a cui ci siamo per un attimo affacciati. Come facciamo di solito, copriamo di parole facili, di piccoli giochi intellettuali quell’interiorità che un poco ci spaventa, che abbiamo pudore a denudare, a mostrare all’altro, a chiunque altro. Anche a una carissima amica.
Ricambio il sorriso, per farmi perdonare questo lungo sproloquio: – No, Dio non l’ho mai incontrato. Però, sai che mi piace passeggiare nei Vangeli, che amo il modo che hanno Marco, Matteo, Luca e Giovanni di raccontare quell’unica vita. Col tempo, con anni di letture occasionali, ho iniziato a farmi un’idea del protagonista di quelle quattro storie. L’ho incontrato, (o meglio, ci siamo incontrati, l’incontro pretende sempre reciprocità) in quelle parole, in quei gesti, in quei silenzi. Mi è piaciuto. E ho deciso di fidarmi di lui, di dargli fiducia. Se questo è il significato che dai alla parola credere, allora posso risponderti con un sì…-
Mi guarda continuando a sorridere: – Ne hai dovute usare di parole per giustificare un semplice avverbio di due lettere…-
Cervasca 1-1-07
Pubblicata su Granello di Aprile 07