Riflessioni di un pellegrino pentito

Luigi è arrivato a Santiago all’inizio dell’estate del 94 con la sua bicicletta. Quel mattino a ritirare la Compostela, il sospirato pezzo di carta attestante la conclusione del pellegrinaggio effettuato secondo le dovute regole, erano in quattro. Nel luglio del 99 la coda per avere il papiro rilasciato dal Capitolo in lingua latina occupava due rampe di scale e fuoriusciva sulla strada…
Luigi ricordava rifugi vuoti e strade solitarie; a noi è capitato, la sera, di non trovare posto neppure nelle tendopoli preparate per l’occasione. Da allora, sul Camino, è stato un crescendo rossiniano di presenze: per quest’estate, anno giubilare, è previsto un flusso di centinaia di migliaia di pellegrini.
Santiago è di moda. Rai 3 ne ha fatta una fortunata trasmissione radiofonica con commenti in diretta. I libri sull’argomento si sprecano, pare che camminare o pedalare solletichi la voglia di scrivere: ho il rimorso di essere caduto anch’io nella trappola.
A parziale scusante, posso dire che, per Germana e per me, il viaggio a Santiago è stata un’esperienza meravigliosa. Dopo dodici anni di movimenti limitati dalla scelta di allevare pecore e capre (oltre che figli), ritrovarsi in strada con la bicicletta, montare la tendina e prepararsi la pastasciutta di sera, incontrare gente nuova, sentirsi parte di un popolo in cammino verso un’unica meta, è stato un sogno. Ne conservo il ricordo di un senso di felicità quasi infantile, stupita, riconoscente. La sensazione impagabile di usare le proprie forze per spostarsi e non le energie di vite passate imprigionate nelle molecole dei combustibili fossili. La bellezza di veder spuntare dal nulla della meseta una chiesetta solitaria costruita con gli stessi colori della terra e dei campi. L’alternarsi di momenti di solitudine e silenzio con altri fatti di parole, di canti, di incontri. Il sentirsi parte di un fiume che scorre verso una sola direzione, percepire nelle mani e nei piedi le tracce di milioni di storie, uomini e donne passati di lì nei secoli, un susseguirsi di tocchi lievi capaci di incidere la pietra.
Arrivato a casa non ho potuto far altro che trasmettere questo mio entusiasmo agli amici. Ancor oggi, complice anche l’incauta ( ma piacevole) avventura del mio raccontino, mi trovo a trasmettere questa voglia di partire, a far girare questa cambiale, a cercare di onorare questo debito contratto col Camino: restituire, almeno in parte, ciò che mi ha dato, dare ad altri ciò che da altri ho ricevuto.
Ero, e sono, un entusiasta del Camino.
Nonostante questo ( o forse proprio per questo…) mi danno fastidio molti aspetti del “successo” anche mediatico di Santiago e dei pellegrinaggi in generale.
Ho avversione congenita per la tendenza, tipica della nostra società senza valori, a buttarsi a pesce su qualsiasi cosa possa surrogare il vuoto assoluto che ci propone e ci impone. Mi disgusta non la ressa, il successo, l’affollamento (che pure, se eccessivo, può diventare fastidioso) ma il tentativo di trasformare anche questo in businnes, di banalizzare o peggio “eroicizzare” il Camino. Farne un tipo originale di vacanza, alternativo ai Club Mediterranée e alle spiagge tropicali, con un pizzico di masochismo da grande impresa unito ai piaceri dello spirito e della cultura.
Perché oggi, lo “spirituale” è di moda. E quindi vende bene. Meglio se si tratta di uno spirituale “ di sintesi”, come l’olio per motori, i concimi chimici e le pillole vitaminiche. Un assemblaggio di oriente e occidente, di Cristo e di Budda, di resurrezione e reincarnazione. Condito con un po’ di sano esoterismo, in modo da sentirsi parte di una piccola congrega di iniziati, di eletti a cui sono aperti i libri della vita, i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, preclusi alle masse.
Mi dà pure fastidio, da buon barbét, questo precipitarsi quasi medioevale a inseguire reliquie di santi, divenuti tramite per accedere a grazie e raccomandazioni, in un sistema quasi clientelare del rapporto con l’Assoluto ( che qui diventa molto relativo…). La preghiera, questo arcano e inspiegabile mettersi in relazione con Dio, questa esigua via di comunicazione fra creatura e creatore, ridotta a sequela di richieste interessate. Come a voler piegare la volontà divina a lavorare per i nostri scopi, contrattare favori, pretendere risposte. Il pellegrinaggio visto come opera meritoria, somma di piccole sofferenze da mettere sul piatto per averne qualcosa in cambio. Una sorta di supermercato del divino, con tanto di raccolta punti: tot preghiere, tot chiese visitate tot indulgenze.
E ancora… che senso ha oggi la parola viaggio? In epoca di spostamenti di massa, di esodi senza fine di milioni di poveri alla ricerca del miraggio di una terra promessa, di migrazioni di interi popoli, che senso è rimasto al nostro viaggiare? Abbiamo ancora il diritto di partire, noi, scopritori di nuovi mondi ed esportatori di democrazie forzate, alternativi con le pance piene e pellegrini con la carta Visa in tasca? Quanto sono piccole, quanto sono leggere le nostre bisacce?
Il viaggio non rischia di diventare un’altra delle tante fughe impossibili: da noi stessi, dalle domande a cui non vogliamo o non sappiamo rispondere, dalla società che abbiamo creato e che ci soffoca?
E allora, partire o restare?
Io credo che l’uomo di ogni epoca sia sempre stato combattuto da due opposti atteggiamenti: l’istinto di andare, di mollare gli ormeggi, di scoprire e quello di restare ancorato al proprio angolo di mondo, alle proprie consuetudini e sicurezze. L’emblema di queste due visioni opposte della vita, in campo cristiano, sono Benedetto e Francesco. La stabilitas loci della regola benedettina imponeva al monaco di rimanere legato a una comunità e a un luogo, di incontrare Dio nel qui e nell’ora di una quotidianità serena e ripetuta. Francesco ha portato la sua santa pazzia a sconvolgere quel mondo statico e a provato lui stesso a inseguire Dio sui sentieri del tempo e dello spazio. Nel suo vagare si è anche fatto pellegrino verso Santiago, lasciando qua e là traccia del suo passaggio. L’uomo, ogni uomo, credo, oscilla nella sua vita tra queste due esigenze, fra questi due opposti stimoli: partire o restare, qui o altrove, Benedetto o Francesco?
Chi ha ragione?
Da incompetente assoluto in campo teologico e uomo di poca fede posso dire che la mia personale impressione è che ogni santo, ogni grand’uomo incarni uno spicchio, una piccola fetta del tutto, un solo aspetto di quell’Uno che è stato Cristo, l’unico capace di fondere in sé il digiuno e la festa, l’allegria e la serietà, il partire e il restare, il deserto e il banchetto. Gli altri, tutti gli altri, compresi i santi e i fondatori di ordini monastici possono metterne in luce un solo aspetto, darne una visione forzatamente parziale. E noi, che santi non siamo, siamo condannati a questo eterno rimbalzare fra tentazioni di fuga e bisogno di radici, desideri di altrove e necessità di ritrovarsi a casa in un posto e nel cuore di qualche persona cara. Un pellegrinaggio non può risolvere questa tensione, al massimo ne rimanda l’urgenza.
Allora cosa rimane?
Rimangono i duemila chilometri di quel rosario recitato dal girare di pedivelle e rapporti, a scandire un ritmo lento, obbligato. In una società della fretta, di cibi precotti e polente istantanee è già molto. Un rallentare della vita che obbliga a ritrovare il silenzio e a ridare una regolata alla scala dei valori che la nostra convulsa quotidianità ci impone. Rimangono gli incontri, veri, profondi, esaltati dai lunghi momenti di solitudine. Rimane quella sensazione di far parte di un grande fiume, molecola spersa fra milioni di altre, in viaggio verso una meta comune.
Rimane, alla fine, la sensazione che duemila chilometri siano in fondo serviti a me, uomo di poca fede, a fare qualche piccolo passo verso l’incontro con quel Dio di cui il salmista dice: – Tu non abbandoni chi ti cerca –

Pubblicato su Il granello di senape giugno 2004